06.10.07
Della epistemologia triadica di Ettore Perrella. Un
commento
di FABRIZIO SIMONCINI
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L’esordire con un titolo così altisonante,
riferendosi a un concetto filosofico certamente nobile
ma per molti oscuro quale è il termine di derivazione
greca epistemologia, significa probabilmente condannarsi
a non essere letto. Un rischio quest’ultimo che
chi scrive deve sempre mettere in conto, ma che aggiungendo
a fianco della parola suddetta l’aggettivo triadica
pare divenire certezza. Voglio invece invitare il lettore
a non lasciarsi sopraffare dalla paura di trovarsi a
che fare con contenuti totalmente alieni da se stessi
e dai propri interessi, ma di continuare nella lettura
con generoso slancio. Questa premessa può apparire
futile e affettatamente moralistica ma non è
priva di senso. Una delle difficoltà più
grandi che le società di oggi manifestano è
proprio quella che a fronte di una continua sovraesposizione
di informazione assistiamo a una lenta incapacità
sia di approfondire che di farsi carico della fatica
che la vera conoscenza comporta. Dunque riscoprire il
significato antico del termine greco epistemologia,
e l’autentica forza del suo contenuto teorico
che sta alla base dell’idea stessa di scienza,
non può non interessare tutti coloro che si interrogano
sulla eticità di ogni approccio scientifico e
in definitiva sul vero senso dell’agire umano.
Rimettere in gioco questi concetti significa riaprire
l’utile diatriba sul rapporto che intercorre tra
la responsabilità di ogni soggetto e la dimensione
sociale in cui il suo agire si contestualizza.
Per epistemologia s’intende lo studio dei criteri
generali che decidono sulla possibilità di fare
distinzione tra quello che può ritenersi un giudizio
di tipo scientifico (episteme) da quello di una mera
opinione (doxa), in sostanza mira a individuare i fondamenti
e i limiti di validità di ogni sapere. Il termine
tradotto alla lettera sta a cavallo tra due significati
precisi. Da un lato è sinonimo di teoria della
conoscenza (gnoseologia) e dall’altro si riferisce
alla filosofia della scienza. I due significati sono
dunque fortemente legati fra loro e ciò non deve
stupire in quanto ogni conoscenza, intesa nell’accezione
moderna sia essa rivolta alla metafisica che alla matematica,
non può prescindere dall’idea di un approccio
che sia in sé scientifico. A questo proposito
mi propongo di commentare, su segnalazione del Dott.
Davide di Francia, l’intervento di Ettore Perrella
nella giornata di studio “Gregorio Palamas e la
ricerca di una nuova epistemologia” svoltosi a
Venezia-Salonicco dal titolo “Verso un’epistemologia
triadica”.
La tesi di fondo dell’articolo consiste nel tentativo
di ricreare un rapporto su basi nuove, ma fondate nella
storia secolare del pensiero filosofico, tra la ricerca
scientifica e la riflessione etica attraverso la rilettura
dei fondamenti della scienza a partire da Platone e
Aristotele, passando per alcune intuizioni del teologo
bizantino Gregorio Palamas (1296-1359) fino alla fenomenologia
trascendentale di Edmund Husserl (1859-1938). In pratica
si tratterebbe di ristabilire nell’ambito della
scienza moderna, oggi esclusivamente pensata in un ambito
logico e ontologico, di un riferimento all’atto
(e quindi all’etica) in modo da rendere la scienza
stessa non più diadica bensì triadica,
cioè tenendo conto nella sua applicazione della
logica (la ragione), dell’ontologia (il mondo)
e dell’etica (l’atto).
Perrella si inoltra nella ricerca delle basi fondanti
della scienza moderna che affonda le proprie radici
in alcuni principi stabiliti dallo stesso Aristotele
e rimasti immutati. Come del resto la stessa logica,
anche la scienza si basa su presupposti assiomatici
e dunque indimostrabili. Ma ciò che più
importa a Perrella è sostenere che anche sulla
questione dell’“uno” la concezione
aristotelica ha prevalso su quella platonica semplificando
i problemi in merito all’essenza e alla sua origine.
Citando dall’articolo: “Per Aristotele un
ente è uno perché ha un’essenza,
mentre per Platone un ente ha un’essenza solo
perché, in quanto uno, partecipa di quell’uno
sovraessenziale che determina la sua essenza proprio
perché assegna ad essa – come a qualunque
altro ente – la sua unità.” E da
qui che allora nascono i problemi o quantomeno i percorsi
diversi che segneranno la storia della scienza e il
suo rapporto con la filosofia. Ma citiamo ancora un
altro passo dell’intervento: “…per
Aristotele l’uno dipende dall’essenza, mentre
per Platone è l’essenza a dipendere dall’uno.”
Se infatti prevalesse l’idea di Platone che è
l’essenza a dover fare i conti sempre e comunque
con un qualcosa che la trascende e la determina di volta
in volta, anche la scienza non potrebbe fare a meno
di non occuparsene e ciò cambierebbe, e di molto,
la prospettiva di ogni agire scientifico. Infatti Perrella
sottolinea come: “…quella platonica, invece,
pone direttamente il problema della fondazione della
scienza, ma lo fa solo in un modo sfuggente, tanto che
sembra aprire sulle prospettive d’una mistica
della quale la scienza moderna ritiene non solo di potere,
ma di dovere fare a meno…”.
Ed è qui che Perrella tocca il nodo cruciale,
e decisamente attuale, su cui vale la pena soffermarsi.
Parlare di “origine”, “essenza”,
“Dio” nel pieno dispiegarsi della nostra
civiltà dei consumi, dove ogni ritmo di vita
si conforma alle esigenze del capitale, sembra macchiarsi
di eresia. Solo perché si vuole affrontare queste
tematiche, che nei fatti fanno parte del linguaggio
profondo dell’animo umano, si viene tacciati di
essere fuori dal mondo oppure, che è anche peggio,
vicini alla Chiesa del Papa teologo Ratzinger, al quale
solo è ormai concesso di discernere in merito
e con giusta causa. E pensare che su quelle domande
fondamentali è cresciuta l’intera civiltà
occidentale segnando la propria storia e determinandone
i tratti più caratteristici ed elevati. Intorno
a questi problemi essenziali si sono formati non solo
grandi filosofi e teologi ma anche l’intera società
civile che da quelle analisi mutuava elementi di rottura
contribuendo a fondare percorsi di emancipazione reali
perché sostenuti da un pensiero rigoroso in continua
evoluzione e strutturazione. Per fare un esempio, senza
il “Discorso sul metodo” di Cartesio o l’“Etica”
di Spinoza, che non eludevano certo quelle domande fondamentali
ma a esse rispondevano in modo nuovo, nemmeno la borghesia
europea, sospinta dal vento francese dei “lumi”,
avrebbe trovato quella forza per imporsi e cambiare
i destini dell’occidente. Non a caso Husserl sostiene,
a questo proposito in un passo spettacolare per chiarezza
e lucidità, come il Rinascimento in Europa tragga
il suo spirito vitale e creatore da una rinnovata concezione
della filosofia antica e in particolare da Platone:
“Com’è noto, l’umanità
europea attua durante il Rinascimento un rivolgimento
rivoluzionario. Essa si rivolge contro i suoi precedenti
modi di esistenza, quelli medievali, li svaluta ed esige
di plasmare se stessa in piena libertà. Essa
riscopre nell’umanità antica un modello
esemplare. […] Che cosa considera essenziale dell’uomo
antico? Nient’altro che la forma “filosofica”
dell’esistenza: la capacità di dare liberamente
a se stessa, a tutta la propria vita, regole fondate
sulla pura ragione, tratte dalla filosofia. La prima
cosa è la teoresi filosofica. Dev’essere
messa in atto una considerazione razionale del mondo,
libera dai vincoli del mito e della tradizione in generale,
una conoscenza universale del mondo e dell’uomo
che proceda in un’assoluta indipendenza dai pregiudizi
– che giunga infine a conoscenza nel mondo stesso
la ragione e la teleologia che vi si nascondono e il
loro più alto principio: dio. La filosofia, in
quanto teoria, non rende libero soltanto il filosofo,
ma rende libero anche qualsiasi uomo che si sia formato
sulla filosofia. All’autonomia teoretica succede
quella pratica. Nell’ideale del Rinascimento l’uomo
antico è quello che plasma se stesso esclusivamente
in base alla libera ragione. Per il rinnovato “platonismo”
ciò significa: occorre riplasmare non soltanto
se stessi eticamente, ma anche l’intero mondo
circostante, l’esistenza politica e sociale dell’umanità
in base alla libera ragione, in base alle intellezioni
di una filosofia universale”.
Eppure bisognerebbe interrogarsi sul perché oggi
ogni aspetto della vita umana, dalla scienza al lavoro
dal più banale evento quotidiano alle tendenze
“culturali” dei mass media, abbia pressoché
rimosso l’abitudine e l’interesse per quelle
domande fondamentali, che non siano poste sotto quella
forma di una melensa volgarizzazione da offrire a telespettatori
svogliati e “telecomandati”. La stessa politica
su questi temi non fa che schierarsi per esclusiva opportunità
in un campo (quello del totale ossequio alla Dottrina
della Chiesa cattolica) o nell’altro (il mero
rifiuto pregiudiziale a qualsiasi tentativo di discussione)
a seconda dei presunti vantaggi che ne potrebbe trarre
piuttosto che per acquisire competenze o desiderio di
conoscenza. Ma il bisogno resta e le numerose e inaspettate
presenze, a ogni edizione del Festival filosofia di
Modena, attestano la non ineludibilità dei temi
di cui si va discorrendo.
Ma torniamo a Perrella. Che cos’è allora
questo “uno” si domanda l’autore.
Se l’essenza come afferma Platone è determinata
dal sovraessenziale (cioè dall’uno) “sembra
impossibile dire che cosa sia questo uno, perché
tutte le parole che useremmo assegnerebbero ad esso
un’essenza, tradendone la natura”. Non solo.
Aristotele come si è detto afferma che la natura
dell’ente è determinata dalla sua essenza
e quindi è la stessa essenza attraverso precisi
atti a stabilirne le caratteristiche proprie. La natura
di questa impostazione porta a due immediate conseguenze.
La prima consiste nel comprendere che per fare scienza
“è sufficiente non alterare i dati evidenti
forniti dall’osservazione delle cose e dal ragionamento”;
la seconda che “quando questo criterio non è
applicabile, come nel caso dei comportamenti umani (e
quindi nel campo dell’etica), la scienza ha uno
statuto totalmente diverso, perché presuppone
una valutazione di tali comportamenti, la quale non
fa parte della definizione ontologica e logica (i nostri
atti, quindi, avrebbero una natura del tutto eterogenea
rispetto a tutti gli altri oggetti del sapere, vale
a dire a tutti gli altri enti)”.
Ed è qui che si apre una vera e propria contraddizione.
Se infatti da un lato la logica diventa lo strumento
per indagare l’ontologia e per ontologia si intende
lo studio dell’essere nelle sue varie essenze
(quindi del mondo), dall’altro “si distingue
radicalmente la scienza – logica e ontologica
– dalla morale, considerata identica all’etica”.
Questa contrapposizione che ha i suoi prodromi in Aristotele
si consolida in tutto il pensiero successivo oltre Kant.
Se infatti gli atti sono le manifestazioni di ciascuna
essenza che agisce in maniera preordinata ne deriva
“che la scienza è scienza di assoluti e
che l’assoluto (“Dio”)” –
che possiamo anche chiamare uno – “non può
essere oggetto di scienza perché non interviene
nel mondo se non come un’ipotesi non necessaria.”
A questo punto risulta sancita la separazione fra una
concezione etica (intesa come una riflessione a tutto
tondo sull’agire umano), non tanto della scienza
in senso stretto ma quanto del conoscere, e la logica
e l’ontologia. Scrive Perrella: “Il mondo,
in questo modo, è concepito al tempo stesso come
un assoluto e come del tutto estraneo all’assoluto:
di conseguenza esso è al tempo stesso divinizzato
e privato di ogni principio sovramondano. In altri termini
ci troviamo in un’idolatria nutrita di ateismo.”
La scienza così impostata appare come “una
forma contraddittoria di scetticismo (almeno sui propri
principi) e lo scetticismo altro non è che l’ateismo
in forma gnoseologica.” E allora per Perrella
l’attuale “crisi delle scienze europee”,
citando Husserl, “inizia molto prima del sorgere
della scienza galileiana.”
Pensare a una suddivisione dei quattro campi classici
del sapere quali la metafisica, l’ontologia, la
logica e l’etica ha portato nel corso dei secoli
a far sì che ciascuna disciplina, se così
la possiamo definire, si sia lentamente specializzata
in modo tale da escludere le altre dall’analisi
intorno ai propri oggetti di indagine. Ma può
la scienza, si chiede Perrella, non trattare minimamente
il contenuto del proprio fondamento, dimenticando che
la filosofia (la questione del fondamento è un
tema prettamente filosofico), in origine, era nata per
pensare l’uomo e le sue attività con un
unico sguardo, con un’unica prospettiva visto
che, per dirla alla Perrella, “le tre3 regioni
della scienza non si differenziano in base alla natura
dei loro oggetti, ma in base a quella del modo in cui
li consideriamo”?
E’ difficile dare allora torto al ragionamento
di Perrella che evidenzia come: “l’antitesi
fra scienza e filosofia non solo è immotivata,
ma finisce per falsificare lo stesso contenuto che diamo
alla parola “scienza”. Senza nulla togliere
alle radicali differenze di metodo fra le scienze esatte,
quelle a torto o a ragione chiamate umane e la filosofia
o la religione, non vi è nessun motivo per non
interpretare queste differenze come articolazioni interne
a un solo criterio di ragione, che si manifesta con
varie riduzioni, ma senza nulla perdere della propria
unità.”
E’ a questo punto dell’esposizione di Perrella
che entra in gioco il pensiero di Gregorio Palamas e
con lui tutta la tradizione che si rifà a Platone
e al neoplatonismo. In sostanza ciò che si deve
mettere in gioco è in quale modo una scienza
deve essere fondata. E’ lo stesso Perrella ad
avvertire che fare riferimento a Palamas, teologo del
XIV secolo, può sembrare alquanto arcaizzante
e poco utilizzabile ai fini di una scienza moderna,
ma così non è. “Per Palamas –
scrive Perrella – la sola scienza fondata è
quella che tiene conto della necessaria relazione fra
l’atto (sovraessenziale) e la natura (l’essenza).”
Dunque il tema decisivo che si ritrova in Palamas, e
che si vorrebbe attualizzare, è la funzione dell’atto
come parte ineludibile di ogni ricerca scientifica,
vale a dire l’impossibilità di prescindere
dall’etica (intesa come dimensione dell’atto
nella sua prospettiva), in un’epistemologia che
si vuole ora triadica e non più diadica, cioè
pensata esclusivamente su un piano logico e ontologico.
A supporto di questa tesi Perrella chiama in causa Husserl
il quale, ponendo con forza la fondazione trascendentale
della scienza e in vista dei suoi trascorsi non potendo
certamente essere tacciato di sospetta teologia, anche
se in termini diversi pone lo stesso tema di Palamas.
“Che cos’è il soggetto trascendentale
– si chiede Perrella – da Cartesio a Husserl,
se non la traccia, nell’ente, dell’atto
di ragione nella fondazione del sapere?” E di
conseguenza: “Nell’argomentazione trascendentale
il “sum” (cioè l’essere n.d.a.)
è dimostrato dall’evidenza inaggirabile
del cogito, vale a dire dell’atto di pensare.
In effetti, la verità di cui si tratta nella
logica trascendentale non è prodotta soltanto
dall’accordo fra l’intelletto e la cosa
o fra la parola e l’ente, perché questo
accordo non si produce che nell’atto di riconoscimento
fondativo del sapere. In effetti è solo grazie
a degli atti che il sapere prodotto dalla scienza può
essere realmente quel sapere vivo che chiamiamo, a torto
o a ragione, soggettivo. E, senza questa dimensione
immediatamente etica, il sapere della scienza non potrebbe
avere nessuna concretezza, quotidiana ed etica, per
chi se ne occupa ogni giorno.”
Per dimostrare che l’elemento trascendentale non
solo fonda ma è la prova stessa dell’impossibilità
di scindere l’atto dal pensiero che ne interpreta
il mondo, Perrella porta l’argomentazione della
cosiddetta “Consequentia mirabilis” che
consiste nella “prova con la quale, all’interno
di un sistema logico, si dimostra che, “se, dalla
negazione della proposizione A, si deduce A, allora
A è vera””. Nell’intenzione
dell’autore questa dimostrazione serve a evidenziare
che qualsiasi approccio logico-formale viene “bucato”,
cioè reso incoerente, dal fatto che comunque
la logica stessa “deve essere necessariamente
aperta, per un verso, agli enti rispetto ai quali sono
formulate le proposizioni, per un altro, a un atto di
negare o attribuire verità alle proposizioni
stesse.” Dunque “è proprio l’atto
di enunciare una negazione a dimostrare la verità
di un’affermazione” e l’atto della
negazione ha a che fare strettamente con l’enunciazione
di molti principi di ragione. Infatti: “esistono
principi di ragione che non possono essere negati senza
negare, con questo, la loro negazione. E questa è
appunto una prova, per niente assiomatica e totalmente
autoevidente, di quegli stessi principi.”
L’articolo si conclude con la considerazione finale
che “nessuna prova logica è tale se non
perché fa emergere nella proposizione una verità
che dipende al tempo stesso dall’ente, dalla parola
e dall’atto, nella loro triadica unità”.
Dunque la partita non è così scontata
e arcaicizzante come potrebbe apparire a una prima lettura.
L’invito a considerare la scienza non come un
motore autoregolantesi, ma come un elemento fondamentale
al disvelamento dei fini ultimi dell’uomo e al
miglioramento delle sue condizioni di vita non può
che essere auspicabile. La deriva esclusivamente tecnicista
che affermazioni del tipo “la scienza si fonda
su principi assiomatici indimostrabili, nessuno dei
quali è di natura etica”4, oltre a nascondere
una visione positivistica della scienza, non fanno che
riaffermare in senso forte quel pericolo che lo stesso
Husserl denunciava nella Conferenza tenuta a Vienna
il 7 maggio 1935, e ripetuta poi il 10 maggio a furor
di popolo, che “le mere scienze di fatti creano
meri uomini di fatto”. Lasciarsi abbagliare, come
affermava sempre Husserl, dalla prosperità che
le stesse scienze permettono al vivere quotidiano dell’uomo,
non può servire da giustificazione per l’allontanamento
da quei problemi che risultano fondamentali per la costituzione
di soggettività autentiche, le quali non debbono
dimenticare la propria origine, in primis il pensiero
greco, né il senso ultimo che le deve guidare
vale a dire la “ragione”, il logos, nella
sua più alta accezione. Né si può
dimenticare che una montante visione positivistica della
scienza causò nel XIX secolo quel distacco definitivo
“degli interrogativi specificatamente umani dal
regno della scienza”5. Quella errata premessa
positivistica, dopo la tragedia bellica della grande
guerra, condusse al diffondersi in tutta l’Europa
di un sentimento di rigetto di una scienza che sembrava
sapesse teorizzare esclusivamente la totale subordinazione
dell’uomo alla macchina. La povertà che
si riversò su ingenti masse a seguito di una
industrializzazione forzata e depauperante, la infuocata
tempesta d’acciaio, per citare Ernst Junger, abbattutasi
durante la guerra sui combattenti di entrambi i fronti
furono dunque gli elementi rivelatori di una tecnica
che con l’etica avrebbe avuto ben poco a che spartire.
Le conseguenze che si ebbero sui destini delle popolazioni
europee furono drammatici e alimentarono i fuochi di
un pensiero forte, a fosche tinte reazionarie, che fu
lo snodo teorico utile all’avvento del nazismo
in Germania e più in generale all’affermazione
di quei fascismi che ballarono sulle teste di molti
europei e per molti anni a venire.
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29.12.07
Su „Della epistemologia“ e ancora su Perrella
Lo scritto di Fabrizio Della epistemologia lo considero
un buon lavoro e soprattutto utile a tenere accesa
una discussione su un tema certamente di non facile
trattazione quale quello del rapporto tra scienza
ed etica. Sono dalla sua, inoltre, quando chiarisce
l’equivoco sorto circa l’interpretazione
teologica dell’atto e cerca di spegnere le fiamme
di quei riferimenti alle ingerenze della Chiesa che
tale interpretazione ha alimentato. Non penso che
l’articolo di Perrella, per quanto su molti
punti discutibile, voglia affermare – anche
soltanto tra le righe - un primato teologico come
principio inerente all’atto, piuttosto mi è
parso mantenersi nei limiti della sua dichiarazione
d’intenti, ossia di porsi come un tentativo
(a mio parere mal riuscito, e cercherò di spiegare
il perché in seguito) di giustificare una ri-ammissione
del primato dell’etica nell’epistemologia.
Una sola cosa non mi convince dello scritto di Fabrizio,
ed è la conclusione a tinte enfatiche dirottata
sulle cause delle due guerre mondiali. Sugli esiti
sociali del positivismo di fine 800 e inizi 900 e
sulla loro capacità di contribuire allo scoppio
del conflitto, piuttosto che di scienza parlerei di
tecnica. Ma è ovvio che si tratta di un altro
tema, sebbene la tecnica non possa prescindere dal
discorso della scienza e dell’epistemologia.
Per tornare a Perrella e all’epistemologia triadica,
dico subito che non riconosco all’etica un primato
sulla scienza essendo il fondamento di quest’ultima
da ricercarsi sì in un atto, ma che non ha
nulla a che vedere con l’atto l’inteso
da Perrella. Quello che maggiormente mi fa riflettere
è esattamente il nucleo della trattazione,
ovvero che il concetto di „etica“ viene
identificato con quello di atto fondativo.
Mi domando per quale ragione nel 2007 si dovrebbe
far coincidere un atto fondativo con l’etica?
Un atto fondativo appartiene certamente alla dimensione
della metafisica, ma a meno che questa metafisica
non si voglia ridurla ad una teologia o a qualcosa
di simile all’idea del sommo Bene platonico,
qualunque etica, sia essa prescrittiva, sia essa descrittiva,
non può costituire un primato per l’atto.
Direi piuttosto che l’etica rappresenta un’istanza
regolativa, la quale assume un proprio ruolo quando
è rivolta all’uso di ciò che deriva
dall’atto fondativo, e non invece all’atto
fondativo stesso.
Dice Perrella (pag. 5):
«La fenomenologia trascendentale, dicevamo,
in altro non consiste che nel ritorno, nel quadro
della logica moderna, d’un riconoscimento della
funzione fondativa dell’atto. Nonostante le
apparenze, dunque, tutta la filosofia trascendentale
– da Cartesio in poi – è un effetto
del ristabilimento, nell’ambito della dottrina
dualistica (ontologica e logica) della scienza moderna,
d’un riferimento all’atto che la rende
triadica, riaffidando all’etica (all’atto)
la sua funzione epistemologica fondante.
Che la scienza possa – e quindi debba –
essere fondata nella vita mi pare un sano principio
di ragione, che nessuna concezione dualistica potrà
mai smentire. E che una scienza fondata nell’atto
– oltre che nell’essere e nel logos –
sia anche immediatamente triadica, a questo punto,
è totalmente autoevidente».
E’ solo un esempio di come può non risultarmi
chiaro cosa si vuol intendere qui per etica: parliamo
di una disciplina che si occupa di come agisce e di
come deve agire l’uomo oppure di una disciplina
che si occupa di un qualche principio libero di volontà?
E se valesse quest’ultima ipotesi, nell’atto
libero di una volontà, nel momento stesso in
cui si produce nel soggetto, si può già
parlare di eticità, o non è forse l’atto
libero di una volontà il principio al quale
consegue il ragionamento etico?
Per accreditare la teoria del primato dell’etica
nell’epistemologia Perrella chiama in causa
anche Kant. Ma Kant ha notoriamente scritto molto
ed è possibile che nella sua opera qualcosa
sfugga. Nella Dialettica trascendentale infatti, precisamente
nel paragrafo intitolato Risoluzione delle idee cosmologiche
riguardanti la totalità della derivazione degli
eventi del mondo dalle loro cause, il tedesco affronta
il problema di una causalità secondo libertà,
nel tentativo di isolare il principio causale di un
atto libero. Da questa lettura emerge un dato rilevante
per il presente tema: prima ancora che etico, il problema
della causalità secondo libertà è
squisitamente logico, e la ragione umana non potrebbe
andare oltre senza sfociare in una mera illusione
trascendentale (cosiddetta „antinomia della
ragione“). Pertanto la conclusione di Kant è
che si può soltanto mostrare la possibilità
ideale (logica) della libertà, ovvero la sola
pensabilità della libertà. Ora, se in
luogo della causalità secondo libertà
kantiana ponessimo l’atto fondativo di cui parla
Perrella, potremmo soltanto ammettere che esso (l’atto)
è soltanto quello che è in sé,
nei limiti della ragione, senza possedere ancora alcunché
di etico e che inerisce piuttosto alla sfera dell’ontologia
prima e della logica poi. Inoltre, se si considera
che l’etica è la dottrina che si occupa
di stabilire ciò che è buono e ciò
che non lo è nell’agire umano, non bisogna
forse anche ammettere che nel ri-portarla a fondamento
dell’epistemologia si afferma nello stesso tempo
che l’atto è un fatto puramente soggettivo
e che di conseguenza anche la scienza lo è?
Dove fa a finire la pretesa oggettività della
scienza?
Parlare di etica a fondamento della scienza significa
pensare questo fondamento come avente un principio
finalistico, quando invece si tratta di un atto che
connota in senso logico (secondo ragione) un dato
ontologico. L’atto è perciò una
causalità immanente e in questi termini afferma
un chiaro principio materialistico. Il primo sorgere
di un enunciato scientifico non si cura affatto di
stabilire se i suoi contenuti siano etici oppure no,
esso ha davanti a sè soltanto la valenza oggettiva
di ciò che afferma (la qualità può
essere nel farmaco così come nell’ordigno).
La funzione dell’etica nell’epistemologia
si rende necessaria nel momento in cui la scienza
fa il suo ingresso nella dimensione della vita associata.
L’etica non è pertanto fondante, bensì
regolativa e la scienza dal canto suo prosegue indisturbata
nello sforzo di formulare oggettivamente i propri
enunciati. In conclusione, quello che secondo Perrella
dovrebbe essere il fondamento etico della scienza
mi appare piuttosto come una connotazione a posteriori
dell’atto fondativo della scienza. Se questo
è vero allora l’epistemologia non nasce
triadica, ma casomai lo diventa; quando nella scienza
si pone un fine diverso dalla scienza stessa, ecco
che si rende necessario contemplarla anche sotto l’aspetto
etico, dunque, finalmente, secondo i tre aspetti di
cui parla Perrella.
Saluti, Giorgio.
A proposito dell'intervento di Fabrizio e della replica di
Giorgio.
Chiedo scusa per occupare altro spazio nel merito di una
questione che ha già spazientito a sufficienza. Sarà una
brevissima aggiunta. Giorgio si chiedeva giustamente che
diavolo intende Perrella con etica? Non mi permetto di
rispondere solo perchè non sono sicuro che lo farei in
modo
del tutto appropriato. Rimando per chi fosse interessato a
due luoghi appassionanti di agomentazione dove è possibile
avvicinarsi ad una possibile risposta: il seminario
sull'etica di Lacan e il bellissimo libro "Il tempo etico"
di Perrella. Si tratta di due luoghi psicanalitici. Non
credo sia facile accedere al senso dell'etica che intende
Perrella a priscindere dalla sua esperienza psicoanalitica.
Quindi un campo di esperienza individuale e molto pratico.
Ho sempre pensato che gli psicoanalisti dovrebbero dedicare
un pò di tempo a spiegare il concetto di etica
psicoanalitica, perchè dare per scontato che chi ascolta
capisca con il solo supporto del termine è del tutto
irrealistico. E' vero che chi vuole può capire ma non si
può pretendere che tutti vadano a leggersi i testi più
adatti. Inoltre mi sembra del tutto evidente che questo
termine è pensato in tuttaltro modo sia nella filosofia
che
nel senso comune. Aggiungo che l'etica non è la morale,
non
ha molto a che vedere per esempio con il codice deontologico
e l'etica professionale. Queste sono piuttosto il sintomo di
una mancanza di etica. Un pò come Paolo di Tarso trattava
la
Legge: una stampella a sostegno dell'incapacità di amare e
di essere giusti come Cristo. Ma non può essere la Legge a
fare la giustizia perchè questa dipende solo dall'atto "giusto". Si può essere iniqui nel rispetto della legge
(vedi Previti e Berlusconi) e si può essere giusti nel non
rispetto della legge (vedi Antigone). Ma finchè non si
riesce ad essere giusti è meglio rispettare la legge
perchè
questa nasce comunque con l'intento di aiutare ad esserlo.
Scusate se torno ad un livello molto più basso ma prima di
tutto l'etica ha a che fare con l'atto che ogni uomo compie
ogni volta che sceglie, anche quando non nè è
consapevole.
La morale, la teoria, la conoscenza, il transfer verso il
soggetto supposto sapere, ecc... sono tutte stampelle che
utilizziamo per risparmiarci ogni volta di compiere un atto
nel senso pieno. Nel discorso sul metodo Cartesio ha
effettuato questa operazione di incontrare al di là di
tutte
le sovrastrutture simboliche il reale della propria
soggettività fondante il mondo. Ogni volta il mondo è
quello
che abbiamo più o meno "scelto" che sia. Non nel senso di
una produzione delirante o di idealismo assoluto, ma nel
senso che il mondo in sè non esiste ed esiste solo un
mondo
relazionato a noi e alla nostra possibilità di
accoglierlo.
Per gli antichi ad esempio era piatto, fermo, ecc... Quello
che è il mondo in sè non ci è ne mai ci sarà
accessibile. La
scienza e la filosofia sono tentate dall'idea di non aver
bisogno di rifondarsi etica mente ogni volta convinti che ci
si possa accontentare della fondazione che Cartesio ha fatto
una volta per tutte e per tutti. Questo atteggiamento
contribuisce molto alla produzione di questa enorme pigrizia
ed indifferenza che caratterizza il tempo in cui viviamo. Ma
basta guardare con un pò di attenzione e ci rendiamo conto
che non è così. Il fisico non è soggettivamente
escluso
dall'esperimento perchè ad esempio è in base alla sua
scelta
che una particella si manifesta come corpo o come energia.
Il principio di indeterminazione stabilisce che solo l'atto
osservativo fissa la realtà della materia. Ma non voglio
addentrarmi in un ambito che non è il mio e con sò
maneggiare in modo appropriato. Parlare dell'atto e
dell'etica come di qualcosa di generale o di fondante
l'Essere in generale significa parlare dell'atto di Dio che
si dice sia inconoscibile. Il nostro atto è invece molto
più
tangibile e conoscibile anche se un pò più difficile da
trasmettere.
Davide di Francia
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