18.09.09
A volte ritornano
di ROBERTO FERRETTI
PDF
Venezia 66 ha chiuso i battenti lasciandosi alle spalle una delle rassegne più interessanti e divertenti degli ultimi anni. Bravo il direttore della mostra internazionale Marco Müller, per la sensibilità denotata nel cogliere il malessere che la scorsa edizione serpeggiava tra il pubblico e tra gli addetti ai lavori, originato dai film, tanti e troppo deprimenti, a tal punto da renderne addirittura faticosa la visione. Bravo anche a mettere in piedi una kermesse all’altezza della situazione, nonostante la preoccupante concentrazione di grandi registi, tra i più importanti della scena internazionale vecchia e nuova, presenti questa primavera alla mostra del cinema di Cannes.
Il direttore Müller ha aggirato sapientemente il problema portando a Venezia molti giovani cineasti dalle notevoli capacità, affiancandoli ad alcuni maestri che da anni non si cimentavano più nella realizzazione di film. Stiamo parlando, ad esempio, di Jacques Rivette, uno dei padri della nouvelle vague, o del ritorno di Werner Herzog, dopo anni di solo documentari e regie teatrali, con ben due film in concorso: per poi sbalordire tutti con il mito George A. Romero, per gli amanti del genere horror, padre di tutti gli zombi in concorso con “Survival of the Dead”.
Applauditissimo, anche se fuori dalla competizione ufficiale, Oliver Stone, con il documentario sul presidente del Venezuela Hugo Chavez: “South of the Border” e sullo spirito bolivariano che sta investendo tutto il sud America in questi ultimi anni. Indimenticabile il bagno di folla che entrambi hanno sostenuto sul tappeto rosso, tra gli striscioni “Bienvenido señor presidente” e le bandierine del Venezuela. Una scelta coraggiosa che ha scatenato l’ira del governo. Gli strali dei potenti, puntualmente, sono giunti attraverso i giornali di famiglia con articoli al vetriolo.
Critiche sono piovute a dirotto anche per la grande concentrazione di opere riconducibili al pensiero dissinistra-riformista-sessantottino-comunista che ha fatto ribattezzare questa edizione come quella più rossa dalla caduta del muro di Berlino. Il grande documentarista statunitense Michael Moore non ha certo contribuito in nessun modo a calmare gli animi con la sua entusiasmante ultima fatica: “Capitalism a love Story”, è una sferzante critica all’origine della crisi monetaria internazionale.
Citto Maselli, cineasta che da lustri non si cimentava più con la macchina da presa, è tornato al Lido tra i vecchi amici di un tempo, con “Le ombre rosse”. Un film critico su questa sinistra, dimora degli intellettuali che hanno smarrito la strada delle vecchie idee in nome del personalismo, o del protagonismo, messi all’angolo dai giovani duri e puri dei centri sociali, forse gli unici in grado di prendere in mano le redini da loro abbandonate.
In concorso, Michele Placido con il “Il Grande Sogno”. Film fortemente autobiografico sul movimento studentesco del sessantotto e sulla lotta di classe, distribuito dalla Medusa…
Anche il maestro Giuliano Montaldo con il documentario “L’oro di Cuba” era presente a infittire le file di coloro che in qualche modo hanno risposto presente a questa rimpatriata tra vecchi amici.
Ad essere sinceri nessuno dei sopraelencati lavori ci ha entusiasmato e convinto pienamente.
Sicuramente tutti mossi da profonda passione politica e nostalgia per quegli anni ma, purtroppo, incapaci di farci commuovere e rivivere sulla nostra pelle attraverso il mezzo espressivo del film le sensazioni che loro provarono in quel periodo storico.
In maniera del tutto inaspettata, invece, è riuscita Susanna Nicchiarelli dove gli altri hanno fallito. Una giovane cineasta che con il suo “Cosmonauta”, ha commosso e messo tutti d’accordo conquistando il premio “Controcampo Italiano” .Un delicato lavoro ambientato negli anni d’oro dell’esplorazione spaziale sovietica, protagonisti un fratello problematico e la sorellina minore, attivista sulle orme del padre defunto, in una sezione del PCI della periferia romana. Ci sentiamo di raccomandare la spassosa e di sicura uscita l’ultima fatica di Fatih Akin, già noto al grande pubblico per il pluripremiato “La sposa turca” (“Gegen Die Wand”). In concorso con il film “Soul Kitchen” il talentuoso regista tedesco, d’origine turca, torna nella sua città natale, Amburgo, con un lavoro che la giuria di Venezia ha premiato con il “Premio Speciale”.
Con questa pellicola Fatih abbandona i toni cupi dei suoi lavori precedenti e ci fa riscoprire la possibilità di ridere e divertirsi anche con un film presentato nella selezione ufficiale. Ancora una volta, al centro di questo lavoro vi è l’interculturalità tra i popoli e, con una chiave di lettura già collaudata in precedenza, sono le vite dei protagonisti, dai volti mai banali e dalle vicissitudini portate all’estremo, le basi su cui poggiano le strutture narrative delle storie raccontate da Fatih Akin. “Soul Kitchen” è il nome di una tavola calda, mal gestita da un greco, che incontra non poche difficoltà a far quadrare i conti. Le cose non migliorano, prima, con la partenza per motivi di lavoro della fidanzata tedesca, e poi con l’inattesa visita del fratello prematuramente uscito di galera.
Dalla sezione “Settimana della critica” giunge nelle sale, dopo i commenti della vigilia e dopo che ne è stato censurato il trailer da tutte le Televisioni, il documentario “Videocracy”, di Erik Gandini. Questo lavoro fa un ritratto di come la cultura italiana ed il tessuto sociale siano stati profondamente influenzati dall’arrivo e dal proliferare delle emittenti commerciali.
La sezione de “Le giornate degli autori”, come ogni edizione, ci delizia con piacevolissime sorprese. Quest’anno il lavoro di un giovane cineasta, Daniel Sanchez-Arévalo, ha completamente entusiasmato la platea della sala Perla2. “Gordos” – letteralmente “grassi” – è una commedia dalle trovate esilaranti, ma che non dimentica mai di mantenere i piedi nella dura realtà. Il tema trattato come si può intuire dal titolo, verte attorno al problema del grasso in eccesso, che un eterogeneo gruppo di persone, tenta di risolvere affidandosi ad un terapista dai metodi a dir poco originali.
Bravissimo il giovane regista iberico, quasi un esordiente, e l’affiatatissimo gruppo di attori, capace di mettersi a nudo nelle proprie abbondanti forme, senza riserve. Alcuni di loro, peraltro, hanno dovuto sottoporsi a diete terribili per prendere fino a venti chili di peso.
Nella stessa sezione, ma con un lavoro dal profilo completamente diverso, il maestro Goran Paskalijevic ci riporta a casa sua a cavallo tra Albania, Serbia e Kosovo con il film “Honeymoons”. Già conosciuto al pubblico italiano per il bellissimo “La polveriera”, di ormai dieci anni fa, il regista serbo mette a nudo come il problema dei Balcani e della ex Jugoslavia sia tutt’altro che risolto. Il film è in parte girato in Serbia, in parte in Ungheria e in Albania, con un salto veloce anche in Italia. Gli attori, tutti all’altezza della situazione, si sono incontrati tra loro per la prima volta solo al Lido di Venezia. Paskalijevic, mantenendo i cast separati e facendoli lavorare nel proprio territorio, è riuscito superbamente a rendere lo stridente rapporto di vicinanza che ancora oggi, Serbi, Albanesi e Kosovari vivono ogni giorno.
Le ferite non sono completamente rimarginate, il ricordo della guerra dei Balcani è sempre vivo e la presenza, ancora oggi, delle truppe internazionali di pace non aiuta a dimenticare. Un senso di inquietudine che i protagonisti si portano dietro, nella loro ricerca della felicità indissolubilmente legata alla fuga verso luoghi migliori , verso i paesi vicini come l’Austria o l’Italia.
Vincitori e vinti. Dalla mostra di Venezia, il film più costoso della storia del cinema italiano, dal cast infinito (c’erano proprio tutti, sembrava di essere a Yalta), il kolossal di Giuseppe Tornatore: “Baaria” se ne parte senza neppure una “osella”.
Il Leone d’oro è andato senza polemiche al bel film israeliano: “Lebanon ” di Samuel Maoz.
Giugno 1982 prima guerra del Libano un mezzo corazzato nel mezzo di un campo di girasoli.
Questa, l’unica immagine girata in esterno. Tutto il film è ambientato all’interno di un carro armato israeliano, che si perde durante un operazione di perlustrazione in territorio nemico. L’equipaggio interamente composto da militari di leva, è allo sbando, per la prima volta impegnato in una vera operazione di guerra. Claustrofobico e trincerato, Lebanon guarda alla guerra attraverso il mirino-obiettivo di un artigliere.
Leone d'Argento per la migliore regia: Shirin NESHAT per il film Zanan bedoone mardan (Women Without Men) una coproduzione tra Germania, Austria, Francia. Con una struttura narrativa fluttuante tra ricostruzione storica e dimensione onirica, la giovane cineasta di origine iraniana ha rievocato il periodo a cavallo degli anni ’50, quando in Iran lo Scià preparava il colpo di stato per disarcionare il presidente Mossadegh, democraticamente eletto dal popolo, e fautore di una pericolosa politica di nazionalizzazioni, mal vista dai paesi occidentali, ed in primo luogo da Inghilterra e Stati Uniti.
|