Tempesta di fuoco in
montagna
di FABRIZIO SIMONCINI
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L'intento di questo scritto è di rendere
le cupe atmosfere del passaggio del fronte sulle nostre
montagne. Eventi che segnarono la memoria collettiva
di intere vallate e la psicologia di numerose famiglie
che subirono impotenti i momenti più tragici
dell’ultima guerra, dall'8 settembre 1943 all'aprile
del 1945. Su queste vicende, in particolare sulla strage
di Marzabotto e tutto ciò che riguarda la vita
della brigata partigiana Stella Rossa, è difficile
aggiungere qualcosa di nuovo rispetto a quello che la
memorialistica e le fonti d'archivio già hanno
raccontato. Ma quello che ancora a mio avviso non è
stato fatto è di fondere tutte le notizie orali
e scritte, traendone un racconto che ricrei, per quanto
possibile, lo spirito del tempo intrecciando i sentimenti
della popolazione montanara, dei partigiani della Stella
Rossa e dei militari germanici, e integrando il quotidiano
con l'eccezionale di fatti terribili.
A Monte Sole c’è la guerriglia. Pochi a
San Benedetto sanno che c’è una brigata
di partigiani fortissima e assai numerosa che si batte
a cavallo tra le valli del Setta e del Reno. La comanda
Mario Musolesi detto Lupo. Nessuno, nemmeno il CLN (il
Comitato di Liberazione Nazionale), avrebbe sperato
possibile costituire, e far sopravvivere, una truppa
di resistenza proprio nell’Appennino bolognese
a ridosso della linea verde (così veniva anche
chiamata la linea gotica), dove si acquartierava una
forte presenza germanica per via degli snodi fondamentali
di comunicazione quali la strada della Futa, la Porrettana,
la linea ferroviaria direttissima, e comunque a ridosso
del capoluogo Bologna, da cui spesso partivano spedizioni
punitive fasciste contro popolazioni e persone renitenti
al potere e alla legislazione di Salò. Terre,
quelle della montagna bolognese, molto abitate e coltivate,
per questo prive di quella boscaglia fitta e continua
fondamentale per il ricovero e la fuga. All’inizio
il gruppo è composto da pochi uomini per lo più
operai e contadini, nonché giovani ragazzi sfuggiti
alla leva fascista e alla Todt. Una organizzazione civile
quest’ultima pensata per coordinare il lavoro
coatto nella costruzione di fortificazioni militari
e fornire sostegno logistico ai rifornimenti di materiale
per il fronte. Ma l’armamento dei partigiani è
scarso e di bassa qualità. Solo pochi fucili
raccolti dai giovani amici di Lupo lungo le numerose
gallerie della ferrovia. Armi queste, abbandonate dai
militari italiani che cercavano rifugio subito dopo
l’8 settembre, e che volentieri si disfacevano
di quelle anticaglie che il regime fascista con grottesco
clamore guerriero aveva loro fornito.
Aprile 1944. Sono le quattro del mattino e nel silenzio
di una notte già prossima all’alba si diffonde
nell'aria improvviso il rombo di un potente motore.
L'atteso segnale era finalmente arrivato. Radio Londra
aveva comunicato le parole fatidiche concordate con
un agente inglese che si era innamorato di una ragazza
che conosceva bene il comandante Lupo e che li aveva
messi in contatto: “Mario si prepari”, e
la sera successiva “Gli uccelli cantano”.
I partigiani così avvisati avevano acceso grandi
fuochi disposti in maniera tale da formare per chi osservava
dall'alto un triangolo illuminato. Ed ecco piovere dal
cielo 36 casse di metallo colme di vestiario e armi.
Due giorni dopo secondo e ultimo lancio di materiale,
recuperato in gran parte dai contadini del posto e consegnato
nelle mani dei partigiani. Il morale è alto e
la formazione sempre più agguerrita si fa di
giorno in giorno più numerosa. Il Lupo veniva
dall’esperienza della guerra d’Africa e
aveva potuto toccare con mano la spropositata forza
fatta di materiale bellico e di inesauribili rifornimenti
a disposizione degli alleati, intuendo che lo scontro
fra gli eserciti avrebbe avuto un sicuro vincitore.
Non era dunque a digiuno di arte militare, tutt’altro,
ma molti dei ragazzi che si univano alle sue fila non
avevano mai sparato. Quando sarebbe stato necessario
battersi contro le truppe di linea tedesche, addestrate
ed esperte, i nodi sarebbero venuti dolorosamente al
pettine.
I primi attacchi partigiani vengono messi in atto mediante
sabotaggi contro la linea ferroviaria, il primo in particolare
facendo saltare un treno carico di combustibile. Poi
si cominciano a prendere di mira le caserme locali della
Milizia fascista sparse nei paesi dell’Appennino
bolognese. La rapidità con cui si assestano i
colpi, il pressoché generale sostegno della popolazione
e la scarsa convinzione dei soldati di leva di Salò,
garantiscono con successo l’efficacia delle azioni.
Ma la vita del partigiano, al di fuori dalle facili
e immaginifiche rappresentazioni, è dura e densa
di quotidiane insidie. La brigata deve spostarsi ogni
giorno attraversando i crinali delle montagne con il
pericolo continuo di delatori che facciano la spia rivelando
la loro posizione. I ricoveri sono rari e in luoghi
impervi, il freddo intenso e continua la fame che fedele
li accompagna conficcata nello stomaco. La gente montanara
e i contadini li aiutano, chi per convinzione e chi
per forza, ma da mangiare ce n’è poco per
tutti: i campi sono incolti, il fronte si avvicina,
regna la paura.
La sopravvivenza si fa sempre più difficile e
pericolosa anche nel paese di San Benedetto. Alcuni
giovani giocano nel campo sportivo pieni di una vitalità
primaverile. Senza che ci fosse stata quel giorno alcuna
avvisaglia, proveniente dalla località che in
dialetto chiamano la pianona, una lunga colonna di fanti
della Wermacht sembra improvvisamente materializzarsi
dal nulla accompagnata nella marcia dal sinistro rumore
dei cingolati. La guerra s’affaccia anche nella
vallata del Sambro con l’agro di un incubo. I
ragazzi scappano presi da un istintivo timore lanciandosi
in mezzo ai campi già alti di grano e lungo i
fossi: cercano rifugio nelle case più vicine
e danno l’allarme. Gli occhi del divertimento
si dilatano in spavento.
Ciò è sintomatico di come la popolazione
italiana, già al primo contatto, vedesse i tedeschi
come il nemico, coloro da cui fuggire e di cui temere.
Vent’anni di propaganda fascista, farcita di solenni
e pompose dichiarazioni di fedeltà nei confronti
dell’alleato germanico, evidentemente a ben poco
erano serviti. Eppure c’era ancora chi si ricordava
il passaggio di Hitler, insieme con Mussolini, lungo
la ferrovia Direttissima da poco costruita e orgoglio
della dittatura. Tutti in piedi alla stazione pronti
a esibire il saluto romano in segno di montanara fede
fascista al passaggio di quello splendido treno. E per
giorni a seguire c’era chi giurava di aver visto
Mussolini stesso o addirittura Hitler scambiare, con
un rapido sguardo, l’assenso al proprio vigoroso
saluto. Altri tempi. Ora la guerra senza più
finzioni rivelava, anche a chi non aveva ancora perduto
qualche parente in Russia o non aveva più notizie
dei propri cari dispersi chissà dove in Africa
o nei Balcani, il vero volto del fascismo e mostrava
come l’imperialismo tanto agognato fosse in realtà
un inganno costruito sopra un cumulo di macerie, lutti
e sofferenze.
Eccola allora per la prima volta comparire in paese
la minacciosa truppa tedesca con un sidecar che, tra
lo sbigottimento generale, sbanda proprio in mezzo alla
piazza a seguito delle proteste di un iroso cane montanaro
che, sorpreso dalla foggia inusuale dei nuovi arrivati,
gli abbaia contro con ben poca reverenza. “Ci
ammazzano tutti adesso…” gridano alcuni,
diffondendo il contagioso veleno della paura “e
per colpa di un cane!” Ma il sidecar con un colpo
di gas riprende il corso della strada e si avvia imperterrito
verso il passo della Futa, seguito dal possente sferragliare
dei panzer Tigre.
Maggio 1944. Le fortezze volanti solcano il cielo dell’Appennino
bolognese e vanno a rovesciare il loro carico di distruzione
nei pressi della località Vado, dove si trova
il viadotto della ferrovia Direttissima, nella speranza
di distruggerlo interrompendo così i rifornimenti
per la prima linea. I lunghi convogli trasportano benzina,
viveri e munizioni ai fanti della Wermacht schierati
a ridosso delle armate alleate. Questi aerei così
giganteschi da fare paura a volte volano talmente basso
che si possono vedere le calotte dei piloti o degli
aviatori che stanno alle mitragliere. Ma i tedeschi
si sa sono tenaci testardi e ogni volta, nel giro di
breve tempo, ricostruiscono il ponte e ripristinano
il vitale collegamento, e così Vado deve prepararsi
a un nuovo e distruttivo bombardamento. Nel frattempo
durante i mesi invernali si sono aggregati alla brigata
del Lupo, tra gli altri, anche una cinquantina di soldati
sovietici provenienti da un gruppo tedesco della sussistenza
di stanza alla Berleta di Marzabotto. Testimoni e attori
dei devastanti combattimenti sul fronte russo, sanno
che contro il loro popolo è in atto una vera
e propria guerra di annientamento e sentono, come unico
compito, quello di rinnovare la mortale lotta contro
il nemico tedesco. Tra questi c’è il leggendario
comandante Karaton che si batte senza mai risparmiarsi.
Non a caso all’inizio della primavera la brigata
partigiana ha già raggiunto notevoli successi
e comincia a preoccupare gli alti comandi tedeschi che
vedono in essa un pericolo non solo per i continui disturbi
alle truppe e ai rifornimenti, ma soprattutto in vista
della non lontana ritirata verso la Germania. Viene
allora deciso di annientare quei banditi che impunemente
scorrazzano lungo le montagne dell’Appennino,
facendo terra bruciata intorno a Monte Sole. Gli aerei
‘cicogna’ già da tempo hanno preso
a sorvolare il territorio nella speranza di scorgere
gli acquartieramenti partigiani. L’ordine di Lupo
è quello di nascondersi appena il loro apparente
innocuo rumore si diffonde per le valli, perché
questi continui sorvoli non rappresentano certo un buon
segno. La conferma di tale presentimento dovrà
arrivare molto presto.
Mentre i temuti occhi delle cicogne volano alto studiando
meticolosamente il terreno, i tedeschi hanno piazzato
vicino a Cà di Bocchino diverse batterie dei
micidiali cannoni 88, i quali, la mattina del 28 maggio,
cominciano a sparare ad alzo zero sulle basi partigiane
alla sinistra del Setta. È il segnale dell’attacco.
Contemporaneamente le truppe germaniche si mettono in
marcia dalla zona di Lama di Setta e procedono rapidamente
in fila indiana verso il crinale per spezzare in due
tronconi i partigiani e annientarli separatamente. I
soldati ignari avanzano in campo aperto probabilmente
perché, avendo sottovalutato la forza nemica,
si sentono troppo sicuri della propria esperienza militare.
Nascosti e dislocati nelle migliori postazioni i partigiani
non vengono presi di sorpresa e cominciano a sparare,
aiutandosi con le bombe a mano, coi fucili e con le
famose mitragliatrici Breda. Faticano però ogni
volta a respingere le continue ondate di assalti tedeschi,
ma sono consapevoli che, nel caso non vi riescano, la
brigata e i suoi uomini sono perduti. Quasi fosse un
miracolo durante uno dei ripetuti e violenti scontri,
si affacciano in cielo inconsapevoli le fortezze volanti
che, nell’esercizio del loro rituale, si dirigono
su Vado per scaricare l’ennesima dose di distruzione.
Volano talmente basse che appaiono enormi quali sono
e, appena scorti i militari tedeschi impegnati nello
scontro, cominciano a mitragliarli tra le urla di giubilo
dei partigiani che traggono nuovo vigore da quell’inaspettata
carica di cavalleria aerea, riuscendo quasi di slancio
a respingere l’ assalto. La sera stanchi, ma orgogliosi
per quella insperata vittoria, tutti gli uomini si radunano
a Cà Bregadè e, raccolte armi e salmerie,
si incamminano nel buio della notte verso luoghi lontani
ma sicuri.
Intanto a San Benedetto appare lungo la strada una fiammante
vettura color malva che lasciandosi dietro una scia
di polvere sembra quasi annunciare un evento inaudito.
I paesani più informati raccontano che da essa
scendesse, con fare imperioso ma del tutto naturale,
il generale Hadler, carismatico comandante dei die grünen
Teufel (i Diavoli verdi), il famoso corpo di paracadutisti
tedeschi distintosi a Montecassino. Alto, giovanissimo
con i suoi soli ventisette anni, ma già avvolto
nell’aura della leggenda che sola si addice a
chi ha fatto dello straordinario coraggio e della follia
il proprio senso di vita. Non ha il tempo di scendere
dall’automezzo che già è su di lui
il tenente di stanza al comando: con una precipitosa
corsa ha estratto l’accendino porgendo la vivida
fiamma alla sigaretta di quel risoluto ragazzo.
Nonostante la inquietante presenza, e per giunta in
pieno centro abitato, del comando della Wermacht, a
San Benedetto la vita scorre quasi normalmente, come
se la guerra fosse solo uno spiacevole ma passeggero
inconveniente. Un gruppo di bambini accompagna i muli
dei soldati tedeschi a bere alla fontana, in groppa
e felici per un tale inaspettato divertimento. Due bambine
invece, Franca e Gilda – quest'ultima, figlia
del sacrestano, ha le chiavi del campanile – appostatesi
su un finestrone, dopo aver imparato la classica parolaccia
tedesca, sono decise a lanciare l’epiteto al passaggio
dei militari. Appena i soldati giungono sotto di loro
si affacciano e urlano: “Scheiße (merde)!”
Non hanno il tempo di vedere la temuta reazione che
sopravviene un immediato quanto disperato terrore di
essere di lì a poco fucilate sul posto. E allora,
chiuse nel campanile per lunghe e interminabili ore,
attendono l'inevitabile destino. A sera inoltrata, quando
già le madri cominciano a preoccuparsi chiedendosi
dove siano finite, le due piccole patriote si decidono,
ancora tremanti per lo spavento, ad abbandonare il rifugio
del tutto convinte che mai e poi mai avrebbero ritentato
una tal sortita. Mentre gli stanchi soldati tedeschi
riflettono su che senso abbia combattere per una causa
che porta pure i bambini a sentirli come presenze ostili.
Giornate, queste, apparentemente simili alle tante che
la millenaria civiltà contadina riserva da secoli,
sempre identiche a se stesse: ma il respiro del fronte
che si avvicina inquieta e seduce al contempo. La paura
di chi teme bombardamenti e scontri si mescola al desiderio
di vedere al più presto le facce innocenti dei
giovani militari americani, immagini sognate di una
agognata liberazione da troppo tempo attesa.
Il pomeriggio del 22 settembre 1944 a San Benedetto
splende un sole vivido e caldo. Gli echi del fronte
sono sempre e angosciosamente più vicini. I bambini
e i ragazzi incontenibili nella loro voglia di esperienze
e di indipendenza dai grandi, quasi incuranti di quella
guerra così rischiosa ma inconsciamente attraente,
sono in giro per campi e aie a cercar noci, frutta e
per giochi. Un attimo e brilla in cielo una luce folgorante.
È il raggiante ma cupo segnale di un attacco
aereo americano che ha nel suo mirino probabilmente
il comando tedesco e il ponte. I più esperti
del paese, che hanno fatto la prima ma non ultima guerra,
riconoscono l’avvertimento e gli inviti urlati,
a nascondersi nei rifugi o nelle cantine delle case,
si trasformano ben presto in un vociare confuso che
sfocia nel panico. È un attimo e il ronzio sottile
di uno, due poi tre cacciabombardieri riempie con un
sibilo l’aria che pare ribollire. I caccia fanno
un primo giro intorno al paese, quasi per prendere bene
i tempi e la mira ai bersagli, e danno così inizio
alla tempesta di fuoco. I tedeschi – da tempo
hanno poche armi e di contraerea nemmeno a parlarne
– subiscono passivamente l’atto ostile di
un nemico ormai invincibile. Il rumore degli aerei si
allontana, ma non la paura che sembra avvolgere tutto
e tutti, insieme a un denso polverone che invade ogni
anfratto del paese. Giacciono straziati con le membra
sparse ovunque alcuni corpi di militari tedeschi, ma
il comando non è stato colpito. Le voci confuse
e gli ordini nel duro idioma germanico si mescolano
al dialetto montanaro: quasi cantilene di dolore che
cercano parenti figli amici. Molti non rispondono alle
chiamate e si teme siano rimasti sepolti sotto le macerie.
Tra i civili quattro non risponderanno più all’appello.
Si teme anche per due bambini, Arnaldo e Gianna. Miracolosamente,
dopo un lungo lavoro di scavo, vengono ripescati feriti
e piangenti tra le rovine. La morte più straziante
tocca a Iotti, il quale, cercando – per proteggere
le figliolette – di tenere su con la coscia una
serranda cadutagli addosso per lo spostamento d’aria
provocato dalle esplosioni, si mozza l’arteria
femorale e abbandona la vita in un inarrestabile lago
di sangue tra le braccia e la disperazione dei presenti.
Il primo vero assaggio dell’avvicinarsi del fronte
ha gettato nella paura le molte famiglie che non hanno
sistemazioni adeguate per sopportare senza rischio il
fuoco incombente. Non è così per chi in
paese ha solidi rifugi allestiti nelle cantine tra le
fondamenta dei palazzi e che, sentendosi sicuro dal
pericolo, decide di restare. Gli altri invece concludono
che sia meglio, e senza indugio, cercare ricovero altrove,
lontani almeno, così si pensa, da bombardamenti
o da drappelli impazziti di militari del Reich assetati
di vendetta. Qualche mese addietro infatti è
stato ordinato dal comando tedesco un rastrellamento
degli uomini abili al lavoro. Solo la prontezza di Angiolino
– dipendente comunale tuttofare, che paga di sua
tasca i sorveglianti – è riuscita salvarne
alcuni dalla partenza verso una destinazione ignota.
La meta per chi lascia il paese è assai vaga.
Lungo il viaggio la comitiva viene più volte
rifiutata, i rifugi sono pochi e stracolmi. Quando si
vedono arrivare un numero così elevato di sfollati,
i proprietari del posto fanno capire che sono indesiderati,
e nemmeno antiche e consolidate amicizie bastano a commuovere.
Finalmente il gruppo arriva al Molinuccio, a pochi chilometri
da San Benedetto, dove resiste un antico mulino incassato
nella valle, ben protetto dal tiro dei cannoni, che
risulta fortunatamente libero e che viene reso immediatamente
accogliente dal lavoro delle donne. Qui la comitiva
si ferma e si prepara a sopportare le ultime drammatiche
vicissitudini che la linea del fronte saprà loro
riservare ancora. Finché il quattro ottobre,
in una mattina bianca di nebbia, si affacceranno timidi,
ma a mitra spianati, i primi soldati americani chiedendo
in tedesco, per ingannare eventuali presenze ostili,
a quelli dentro il mulino: “Kommt Kamerad, kommt!
(vieni camerata, vieni!)” e una voce nascosta,
ma traboccante di felicità, risponde: “Noi
paisà, qui no Kamerad!”
È la sera del 28 settembre. Lupo e i suoi più
stretti fedelissimi decidono di passare la notte dalle
proprie donne, dando una festa del tutto speciale. La
guerra sembra finita e la linea del fronte si trova
ormai a qualche chilometro da Monte Sole. Giungono sempre
più spesso i racconti dei contadini che nelle
loro case vedono la mattina arrivare le esauste pattuglie
tedesche, la sera invece quelle inglesi. Nella truppa
partigiana vige una sorta di stanchezza e rilassatezza
che è preludio al convincimento che finalmente
quella vita di sacrifici e sofferenze possa essere vicina
alla conclusione. Le discussioni, sempre molto accese,
vertono da un lato intorno all’idea di scendere
verso Bologna per contribuire alla sua liberazione,
dall’altro alla proposta di aspettare sul posto
l’arrivo degli anglo-americani contribuendo a
liberare da trionfatori i luoghi natii. La Stella Rossa
infatti, a differenza di altre brigate partigiane, è
un gruppo fortemente radicato nel proprio territorio
per il fatto che il nucleo fondativo della stessa è
costituito, per la gran parte, da persone che in quei
luoghi sono cresciute. Non c’è comunque
molto altro da fare perché le munizioni a disposizione
del gruppo sono risicate e possono permettere appena
una mezza giornata di difesa da un eventuale attacco.
Non ci sono stati più lanci di armi e munizioni
da quelli avvenuti a maggio e i continui scontri hanno
ridotto di molto l’operatività bellica.
Per di più gran parte dei giovani ragazzi, che
per sfuggire alla leva fascista si sono aggregati alla
Stella Rossa, sono privi di armamento. Anche gli informatori
di Lupo e dei comandanti della brigata, che si trovavano
infiltrati nei ranghi della Milizia fascista locale,
si sono sganciati rientrando così tra le file
amiche in vista della imminente liberazione e per questo
nessuno d’ora in avanti conoscerà più
con certezza i piani e gli spostamenti dei militari
nazifascisti.
E la notte allora, quella drammatica notte, scivola
via verso l’alba senza che ci sia il minimo sentore
di ciò che sta per accadere. Eppure giorni addietro
voci inquietanti e incontrollate erano arrivate fino
ai partigiani della Stella Rossa. “Verranno i
tedeschi presto, sì i tedeschi… ma quelli
cattivi.” si vociferava. E infatti la truppa del
demonio è da pochi giorni già acquartierata
in quel di Rioveggio in attesa di compiere il lavoro
per cui ormai sono ampiamente specializzati: spazzare
via le bande dai luoghi in cui queste possano minacciare
le vie per la ritirata delle divisioni del Führer.
Il corpo scelto Waffen-SS di Himmler ha già lasciato
sulla sua strada una lunga scia di sangue, fatta in
gran parte di stragi compiute ai danni di civili inermi,
soprattutto di bambini, donne e anziani accusati sommariamente
di essere fiancheggiatori dei partigiani. Non c’è
pietà o giustificazione per coloro che finiscono
alla loro mercé. Questa famigerata soldatesca
appartiene alla 16a divisione corazzata granatieri Reichsführer-SS,
e al loro interno si distingue per la particolare ferocia
il reparto esploratori comandato dall’efferato
maggiore Walter Reder. Queste truppe provengono e si
sono temprate nella esperienza della campagna di Russia,
dove l’annientamento dei civili fa parte di un
preciso piano ideologico. L’invio di questi militari
significa, per coloro che li comandano, carta bianca
sulle modalità di azione e garanzia di impunità.
La strategia per annientare le bande consiste nell’agire
di sorpresa, senza dare al nemico alcuna possibilità
di fuga, accerchiandolo e servendosi di persone della
Milizia fascista che sappiano indicare senza indugio
il terreno su cui muoversi, segnalando i luoghi dove
è certa la presenza partigiana. Sono dunque italiane
le spie e coloro che fanno da guida, tutti inquadrati
nei contingenti che portano la camicia nera e che danno
le coordinate per l’efficacia della mattanza a
venire.
Le operazioni di accerchiamento e rastrellamento cominciano
quando ancora fa buio, verso le cinque della mattina.
Dopo pochi minuti di cammino i reparti tedeschi già
intravedono i primi gruppi di case. Si avvicinano lentamente
ma certi dell’effetto sorpresa, entrano sfondando
le porte e sparano. Molti soldati sanno che lì
non troveranno alcun partigiano, ma questo conta ben
poco: si eseguono gli ordini senza discutere e con ferocia.
Alcuni sono ubriachi, altri drogati da misture speciali
volte a scardinare quel briciolo di senso di colpa che
in essi ancora rischierebbe di manifestarsi. Si levano
forti le grida delle madri e dei bambini terrorizzati.
“Raus! Raus! ” urlano, accompagnando il
comando con il calcio dei fucili sulle spalle e sulla
nuche dei malcapitati. Gli anziani vengono subito freddati
sul posto, troppo lenti a scendere nell’aia. Non
si può dare alcun vantaggio ai partigiani che,
probabilmente avvertiti dal quel devastante trambusto,
stanno già cercando di eludere la mortale imboscata
con l’unica possibilità di salvezza che
si chiama freddezza e velocità. Ma in pochi ne
sono provvisti. I giovani ragazzi che sono appostati
nei punti nevralgici delle zone intorno a Monte Sole
sono presto sopraffatti dalla paura, che diventa caos
e fuga senza speranza. Altri invece, tra cui il comandante
sovietico Karaton, si difendono e riescono per molto
tempo a tenere le posizioni. Poi la scarsezza delle
munizioni li costringe a ritirarsi, alcuni verso la
cima di Monte Sole altri verso Monte Caprara in vista
dell’ultima difesa. I nazisti, avvertiti della
strategia della Stella Rossa, cominciano a bombardare
con armi pesanti le due cime, a colpi di mortaio e con
i cannoni posizionati a Cà di Bocchino. Nel frattempo
la strage di inermi si consuma, trasformando in orrore
ogni luogo che viene toccato dalla violenza nazista.
L’incredulità di quei poveri contadini
si muta presto in panico per la certezza della imminente
fine. Molti vengono rinchiusi nel granaio, cui dopo
un lancio di granate viene appiccato il fuoco. Tutt’intorno
echeggiano grida disumane mai avvertite in quelle montagne.
Urla di persone che stanno per morire, di altre che
vedono giacere morti i propri figli e le proprie madri,
urla che si confondono con i muggiti lanciati dagli
animali che bruciano imprigionati dentro le stalle e
i fienili.
Alcuni bambini, che erano riusciti a fuggire spinti
dai genitori attraverso le finestre del deposito, vengono
catturati e impalati vivi sui bastoni che sorreggono
i filari della vigna. I commilitoni SS si muovono con
grande dimestichezza, avvezzi a tradurre già
da tempo in cruda pratica le direttive di sterminio.
Il puzzo di alcool che emanano fa capire in quale stato
agiscano. In pochi secondi si leva un fetore acre di
liquore e carne bruciata che stordisce. Le urla sembrano
quasi raccolte e ovattate dal crepitio dei granai e
delle abitazioni in fiamme, mentre sulle montagne antistanti
divampano nuovi fuochi come se da ciascun borgo si volesse
annunciare l’imminente festa di paese. Alcune
ragazze che cercavano di fuggire tra i boschi vengono
raggiunte e massacrate. Una di queste è incinta,
viene squartata e il feto gettato tra gli alberi. La
mattanza è in pieno svolgimento. Il sole resta
ancora velato tra le nubi e la nebbia. I nazisti delle
Waffen-SS, supportati dai micidiali lanciafiamme, avanzano
in fila indiana pronti a disporsi per l’accerchiamento
quando trovano resistenza o semplici abitazioni civili.
Si muovono in direzione concentrica, essendo partiti
dai quattro punti cardinali intorno a Monte Sole e,
mano a mano che la stretta si chiude, la scia di morte
diventa indicibile.
Il 5 ottobre, dopo svariati giorni di lucida follia
si conteranno tra i civili 770 morti, di cui 216 bambini,
316 donne e 142 persone anziane sopra i sessant’anni.
Fra i partigiani molti riusciranno a fuggire lungo i
crinali, la notte successiva all’attacco, disperdendosi
negli anfratti delle montagne tra mille peripezie fatte
di terrore, scontri, fame, morti. Avversità terminate
infine, per chi ce la fece, solo con l’agognata
liberazione. Né Lupo né Karaton, e molti
altri della brigata Stella Rossa, poterono vedere la
luce del 25 aprile 1945.
Gennaio 2007. A La Spezia presso Tribunale militare
si conclude il processo intentato contro i militari
SS ancora in vita con dieci condanne e cinque assoluzioni.
I familiari e gli abitanti di Monzuno, Grizzana e Marzabotto
giunti fino al capoluogo ligure ascoltano muti e immersi
in quei ricordi. C’è chi rimane esternamente
impassibile, chi invece non trattiene le lacrime. Un
processo che si sarebbe dovuto svolgere negli anni ’50,
quando c’erano già tutti gli elementi e
le persone da processare in vita e invece… Invece
prevalse allora l’esigenza politica di non creare
problemi alla nascente Repubblica Federale Tedesca,
che rappresentava per gli USA, nello scacchiere geopolitico
della guerra fredda, una pedina fondamentale. E poi
si sa l’Italia del Re e di Mussolini quella guerra
l’aveva perduta e l’idea di mettere in piedi
una Norimberga tutta italiana non pareva convenire a
coloro che avevano riciclato persone e idee del vecchio
regime in funzione anticomunista. In pochi protestarono
per il mancato processo e i tanti e convergenti interessi
del Governo, dei Servizi segreti alleati e della Chiesa
confluirono in un ‘non possumus’ procedere
contro i criminali di quella drammatica strage. L’armadio,
contenente i preliminari delle indagini con gli atti
di accusa supportati da fatti e nomi circostanziati,
venne voltato e messo simbolicamente a tacere contro
il muro, sancendo per le vittime civili di Marzabotto
un nuovo e vergognoso martirio.
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-Lippi G., Il sole di Monte Sole, Bologna, Edizione
ANPI, 1997.
-Moscioni Negri C., Linea Gotica, Bologna, il Mulino,
2006.
-Simoncini A., Autunno 1944: passa il fronte, San
Benedetto V.S., Edizioni dei
Cercanti, 1995.
FONTI ORALI
Si ringraziano inoltre per le testimonianze
orali e raccolte in video di Massimo Quarenghi, Adriano
e Franca Simoncini. |