21.06.09
Lo smarrimento della sinistra italiana
Sintesi commentata dell’articolo di Perry Anderson sulla crisi della sinistra
di ANDREA MANGANARO
PDF
Il tema che è stato scelto quest’anno per il ciclo di incontri denominato “maggio filosofico”, il cui programma si può trovare in questo sito, è lo stesso con cui, per fortuita coincidenza, ha scelto di uscire il settimanale Internazionale proprio nella prima settimana dello scorso mese di maggio, con una copertina raffigurante un’inquietante immagine di Carlo Marx che si punta una pistola alla tempia. Il tema della crisi della sinistra, per lo meno di quella italiana, è naturalmente di stringente attualità, non tanto per la scontata vittoria elettorale dello schieramento di centro-destra nelle elezioni politiche dello scorso anno, quanto soprattutto per altri due precisi motivi: 1) la scomparsa dal parlamento italiano, per la prima volta nella storia repubblicana, di ogni forza politica di estrazione socialista o comunista; 2) soprattutto, il forte deficit culturale e programmatico sia di queste forze di sinistra, sia delle forze di centro(sinistra) presenti in Parlamento. All’interno di queste formazioni, infatti, si mescolano da troppi anni istanze contraddittorie quali diritti sociali e del lavoro, welfare e programmazione economica da una parte, e libertarismo, ecologismo radicale ed illusioni anti-moderniste dall’altra. Senza tener conto, viceversa, della marcata tendenza alla “modernizzazione” liberista che caratterizza il principale partito erede del PCI.
Un’analisi approfondita del difficile momento attraversato dalle forze politiche e sociali della sinistra deve prendere le mosse, dunque, da questi due dati di fatto, ma non può limitarsi soltanto al dato contingente. In effetti, negli ultimi quindici anni i consensi del PDS prima e dei DS poi, congiuntamente a quelli delle forze alla sua sinistra, non sono mai riusciti ad andare oltre ad un 30-32% dei suffragi. E’ soltanto grazie all’apporto di cospicui consensi provenienti dal centro (ex) democristiano, infatti, che lo schieramento di centro-sinistra è riuscito a vincere – di stretta misura – le due elezioni politiche del ’96 e del ‘06, senza peraltro riuscire a perseguire, in nessuna delle due occasioni, le istanze progressiste o almeno socialdemocratiche professate alla vigilia del voto. Le ragioni di questa crisi di idee e di strategia, pertanto, vengono da lontano e necessitano quindi di un’analisi di lungo periodo, così come ha fatto, del resto, lo storico britannico Perry Anderson, co-fondatore della New Left Review, ed autore del saggio da cui è stato tratto l’articolo pubblicato su Internazionale.
Il titolo ed il sommario dell’articolo contengono già il senso di questa analisi: “La sinistra invertebrata. Troppo deboli, moderati, pronti a scendere a compromessi. Il PCI ed i suoi eredi hanno perso contatto con la società. E hanno dilapidato un’eredità politica straordinaria”. Credo che molti non abbiano difficoltà a concordare con questo sommario.
Anderson parte effettivamente da lontano, ovvero dalla capacità del PCI di “assimilare e riproporre il filone dominante della cultura italiana”, l’idealismo, riuscendo così ad esercitare una grande influenza tra le élite del Paese. Se Antonio Gramsci e Benedetto Croce sono stati gli esponenti più rilevanti di questo filone culturale, “dietro a quella corrente di pensiero, però, si sono nascoste tradizioni filosofiche molto più antiche, secondo cui in politica il primato spetta al regno delle idee”. Di conseguenza, “la cultura non era distinta dalla politica, [anzi] era il passaporto per arrivare al potere”, e nell’interpretazione gramsciana “l’egemonia avrebbe garantito la pacifica conquista del controllo dello Stato”. Benché Gramsci non avesse mai pensato di poter abbattere il capitalismo senza la forza delle armi, come ricorda Anderson, tuttavia “il primato dell’egemonia si adattava molto bene alla cultura di stampo idealista”, cosicché “gli intellettuali legati al PCI conservavano i pregiudizi delle élite tradizionali, i cui campi di ricerca preferiti erano tutti umanistici”. Se da un lato, dunque, il PCI riusciva ad esercitare una forte influenza sulle élite culturali del Paese, dall’altro, però, trovò sempre forti ostacoli alla diffusione della propria egemonia tra le masse. Dopo l’avvento della televisione, in particolare, ma anche con la diffusione di numerosi giornali, la DC riuscì ad esercitare una notevole influenza culturale tra gli strati sociali medio-bassi e tra la popolazione scarsamente istruita. Secondo Anderson, “dall’alto della sua cultura elitaria, il PCI guardava a questo universo considerandolo l’eredità di un passato clericale sulla cui importanza Gramsci si era soffermato a lungo”; tuttavia ha contribuito a creare in questo modo “un profondo divario di sensibilità […] tra le classi colte e quelle popolari [che] ha reso il paese indifeso di fronte alla controrivoluzione dell’impero televisivo di Berlusconi”. Di fronte all’edonismo che ha caratterizzato la svolta conservatrice degli anni ’80 negli USA ed in Europa, infatti, l’austerità proposta ed incarnata da Enrico Berlinguer appariva lontana anni luce dal “nuovo mondo dei consumi materiali e culturali” in cui stavano crescendo le nuove generazioni. Dopo la scomparsa del leader comunista, infatti, “il passaggio dal rifiuto intransigente di quei valori all’entusiastica capitolazione politica e culturale è stato brevissimo”.
Non a caso, infatti, l’unica esperienza di rilievo che prese nettamente le distanze con il marxismo idealista, nel panorama culturale della sinistra italiana, emerse, nel corso degli anni ’60, al di fuori del PCI, ed era “dichiaratamente ostile a Gramsci, accusato di spiritualismo e populismo”. Si trattava dell’operaismo, “un movimento multiforme che diede vita ad una serie di riviste importanti, anche se dalla vita breve, come Quaderni rossi, Classe operaia, Gatto selvaggio, e Contropiano, che esploravano le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro e del capitalismo industriale italiano”. I protagonisti di questa corrente provenivano per lo più dalle organizzazioni giovanili del PSI, come Rodolfo Morandi e Raniero Panzieri, anche se uno dei suoi più influenti teorici è stato il comunista Mario Tronti. Viceversa, l’assenza di ogni elaborazione teorica di tipo sociologico sui mutamenti dell’economia italiana dagli fine degli anni ’70 in poi, fece progressivamente perdere al PCI “il suo ruolo di rappresentante politico della classe operaia”.
L’idealismo condusse il PCI ad una “visione tradizionale dei valori culturali” che non è mai cambiata dalla liberazione in poi, e le cui conseguenze “si avvertono ancora oggi”. Questo è uno dei punti cruciali dell’analisi condotta da Anderson, poiché tale visione è alla base sia della progressiva perdita di contatto del partito con la società, sia di quell’atteggiamento moderato e compromissorio che ha più o meno sempre caratterizzato il PCI dalla fine della seconda guerra mondiale in poi. Per analizzare a fondo questo fondamentale nesso causale tra “visione tradizionale” e perdita di contatto con la società, Anderson prende le mosse dalla svolta di Salerno del 1944.
In quell’anno, come noto, Togliatti rientrò da Mosca con il compito di costruire un partito di massa che fosse in grado di “guadagnarsi un ruolo centrale nelle nuove istituzioni democratiche del Paese”, ma in cui veniva definitivamente abbandonata la parola d’ordine dell’insurrezione popolare. Al contrario, la priorità strategica del partito divenne quella di impedire preventivamente ogni possibile scontro con la controparte politica, anche a costo di restarne subalterni, nel timore che la contrapposizione potesse condurre ad un nuovo regime autocratico o che potesse comunque compromettere la giovane democrazia italiana. Così, non soltanto finirono col restare al loro posto “tutti i funzionari vicini al fascismo nella burocrazia, nella magistratura, nell’esercito e nella polizia, [lasciando] alla DC la guida del governo senza fare nulla per smantellare l’apparato di potere creato da Mussolini”; ma il PCI contribuì addirittura a trasformare gli eroi della lotta partigiana in delinquenti comuni, dopo che l’amnistia Togliatti cancellò i reati compiuti dai fascisti durante la guerra.
Più in generale, dopo la svolta di Salerno il PCI ridusse il concetto gramsciano di egemonia “alla ricerca del consenso, confinandolo alla società civile”. In questo modo, lo slancio popolare della Liberazione si esaurì in fretta, l’inizio della guerra fredda contribuì alla sconfitta elettorale della sinistra, e “ci vollero vent’anni prima che in Italia ci fosse una nuova ondata di mobilitazioni politiche”, senza che peraltro il partito fosse in grado di “rispondere in modo creativo” alle istanze di liberazione delle nuove generazioni. Al contrario – ricorda Anderson – quando riuscì ad emergere all’interno del PCI un gruppo di giovani militanti con una “visione genuinamente gramsciana”, critico nei confronti dell’inerzia del partito e che soprattutto condannò apertamente l’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel ’68, questo venne espulso senza alcun indugio: si tratta, come noto, del gruppo che diede vita al quotidiano “Il Manifesto”.
Nel quadro della linea strategica impressa dalla svolta di Salerno, dunque, la moderazione nel PCI costituiva un elemento indispensabile da porre in contrapposizione allo stretto legame con l’Unione Sovietica, dovendo dimostrare continuamente che non vi fosse alcuna “tentazione di emulare il modello bolscevico”. Questa linea strategica era, tuttavia, visibilmente paradossale: da un lato, infatti, il PCI restava intimamente legato al modello sovietico, e dall’altro finiva col temere tutti i movimenti di lotta studenteschi ed operai degli anni ’60 e ’70. Questa contraddizione emerse in modo dirompente durante il sequestro di Aldo Moro, allorché “il PCI dimostrò di non avere né umanità, né buon senso”: la sua contrarietà ad ogni negoziato con le BR, infatti, era legata all’idea che un’eventuale apertura nei confronti dei brigatisti avrebbe potuto significare, agli occhi dell’opinione pubblica, un atteggiamento indulgente, se non addirittura di contiguità, del partito nei confronti degli estremisti.
Dalla svolta di Salerno in poi, quindi, il PCI si condannò ad una permanente “guerra di posizione”, ignorando la vitale necessità di organizzare, nei momenti opportuni, una “guerra di manovra”, così come rilevò il politologo Giovanni Sartori in un articolo ripreso da Anderson; in altri termini, il PCI aveva confuso la tattica con la strategia, condannandosi così all’immobilismo. Nel suo articolo, Sartori attribuisce alla Controriforma ed alle “continue conquiste ed invasioni straniere” la creazione in Italia di “una profonda assuefazione al conformismo”, traducibile in un’attitudine al “piegarsi per sopravvivere” che impedirebbe l’emersione di “élite coraggiose”. Dunque, l’immobilismo tattico del PCI sarebbe anch’esso riconducibile, secondo Anderson, a questa italica tendenza al conformismo ed al “piegarsi per sopravvivere”. A questa tendenza all’immobilismo ed alla mancanza di coraggio, l’autore attribuisce anche comportamenti più recenti di esponenti politici provenienti dal PCI, riferendosi in particolare alla firma del Presidente della Repubblica Napolitano su quel provvedimento impropriamente chiamato “lodo Alfano” (infatti non si tratta di un lodo, naturalmente, non essendoci stato alcun accordo tra le parti politiche) che garantisce l’immunità alle più alte cariche istituzionali. Più in generale, la moderazione e l’immobilismo tattico del PD, sarebbe oggi alla base della “complicità dei suoi leader con il progetto berlusconiano”, avendogli permesso “di mantenere ed ampliare il suo impero mediatico a dispetto della legge”, senza aver fatto “nulla per risolvere il conflitto d’interessi”, e cercando di fare, invece, “per puro calcolo politico, una riforma elettorale con il suo partito”. Allo stesso motivo, è riconducibile anche la tendenza degli ultimi anni di rivalutare i “ragazzi” di Salò e di equipararli ai partigiani.
Oggi all’interno del PD sta tramontando anche la vecchia idea che si possa conquistare il potere attraverso l’egemonia culturale tra le élite intellettuali del Paese: se da parte degli epigoni di ciò che è rimasto dell’operaismo (Asor Rosa) si sostiene, in effetti, che “la letteratura impegnata era un’illusione populista perché la classe operaia non poteva ricavare nessun vantaggio dalle arti e dalle lettere di un mondo in cui la cultura era borghese per definizione”, dall’altro lato nella “destra” del partito l’idealismo è stato sostituito da una sorta di “pensiero negativo” secondo cui le discipline umanistiche e le scienze sociali sarebbero entrate tutte in crisi, e pertanto non possono più essere poste alla base di una “politica rivoluzionaria” (Massimo Cacciari), essendo divenute iper-specialistiche e quindi depoliticizzate.
Questa involuzione teorica ha condotto gli ex PCI ad una “sensibilità religiosa sconosciuta fino a poco tempo fa”, al fine di “andare a caccia del voto cattolico”. Infatti, la disgregazione della DC, lungi dal ridurre l’influenza della religione nella vita pubblica, l’ha viceversa “ridistribuita su tutto l’arco politico”, cosicché “quello che la chiesa ha perso con la fine di un partito di massa obbediente ai suoi ordini, lo ha guadagnato conquistandosi un’influenza più pervasiva, anche se meno evidente, sull’intera società”. Se questa “cultura laica” è finita per divenire così “ossequiosa verso la fede” – prosegue Anderson – è difficile che sia più ostile al paradigma economico e politico dominante, ovvero alla “via maestra neoliberale”, secondo cui “l’unico rimedio per i mali del Paese è una maggiore competitività nei servizi e nell’istruzione, un mercato più libero ed uno Stato più efficiente e snello”.
Se la componente del PCI che, attraverso i vari passaggi intermedi, è oggi confluita nel PD è preda dell’immobilismo, del conformismo e della mancanza di coraggio, esiste almeno una parte della sinistra intellettualmente più vivace e meno conformista, e politicamente più attiva? Anderson non fa riferimento alle formazioni politiche che si trovano a sinistra del PD, bensì a soggetti politici che provengono dalla società civile. L’autore, in effetti, conclude il suo saggio passando in rassegna alcuni soggetti che si sono mossi a sinistra nella società civile degli ultimi anni. Lo fa ignorando, però, sia il grande movimento di contestazione del G8 genovese (che, anzi, liquida con una grave e generica allusione alle “azioni violente che si erano viste al G8 di Genova”), sia il vasto movimento sindacale – ma non solo – che si era opposto alla cancellazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, sia il movimento pacifista che si era opposto alle “guerre infinite” in Afghanistan e soprattutto in Iraq.
La limitata rassegna dell’autore inizia, invece, con il gruppo fondatore del quotidiano “Il Manifesto”, che definisce “un nucleo di comunisti né tradizionalisti né operaisti, rimasto più autenticamente gramsciano di quanto la sua leadership avesse il coraggio di essere o potesse sopportare”, ed arriva a definire addirittura il loro quotidiano come l’unico “veramente radicale in Europa”. Si prosegue poi con la rivista “Micromega”, divenuta “il fulcro dell’opposizione a Berlusconi” dopo la vittoria elettorale del centro-destra nel 2001, con l’inaugurazione di manifestazioni di protesta consistenti in girotondi intorno ai palazzi del potere, e con l’obiettivo di svegliare i DS dopo il torpore conseguente alla sconfitta elettorale. Ma anche queste proteste testimoniavano, in realtà, la profonda distanza esistente tra il tradizionale elettorato popolare del PCI e la sua formazione politica erede: i “girotondini”, infatti, non erano certo operai, bensì erano in larga misura esponenti di quello che lo storico britannico Paul Ginsborg ha definito “ceto medio riflessivo”, ovvero quella “parte della borghesia dotata di senso civico e altruismo”. Questa breve rassegna si conclude, infine, con le proteste studentesche dell’autunno 2008, contro “i tagli di bilancio per l’istruzione e la riduzione delle ore di insegnamento decisi dal governo”, e le contemporanee manifestazioni sindacali contro la deregolamentazione contrattuale, che peraltro sono state ben poca cosa rispetto alle mobilitazioni del biennio 2002-’03.
Insomma, se l’analisi di lungo periodo sulle cause della crisi della sinistra italiana è ben approfondita e circostanziata, appare invece molto più raffazzonato e superficiale il quadro che dipinge Anderson sui soggetti sociali di opposizione degli ultimi anni. Le poche righe con cui si conclude il saggio, tuttavia, lasciano intravedere dove possa essere finita la sinistra, riprendendo così il problema posto dal titolo della rassegna del “maggio filosofico”, o almeno da dove possa ripartire: “Dopo essersi lasciata alle spalle il minaccioso simbolo della falce e martello, la sinistra italiana ha adottato una serie di altri simboli presi in prestito dal regno vegetale e da quello celeste: la rosa, la quercia, l’ulivo, il girasole, la margherita e l’arcobaleno. Ma senza più il vecchio bagliore del metallo, difficilmente riuscirà a fare molta strada”. Al di là dell’indubbia forza evocativa del vecchio simbolo del PCI (e del PSI!), appare evidente che solo smarcandosi dalla subalternità nei confronti del PD, dal suo immobilismo, dal suo conformismo neoliberista e dal suo ossequio nei confronti della chiesa, le forze politiche della sinistra potranno ritrovare un nuovo slancio ed una nuova progettualità.