10.09.07
Rileggendo Svetonio. Il volto antico del potere
di ADRIANO SIMONCINI
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Personalmente leggo di storia per sottrarmi alla tentazione
di vivere il presente come l’unica dimensione
temporale che ci è data. La consapevolezza
di essere un anello infinitesimale della catena che
moltitudini di uomini intrecciano da millenni, se
per un verso immalinconisce, offre tuttavia un appiglio
di senso all’esistenza del singolo. Di recente
ho dunque riletto le Vite dei dodici Cesari di Svetonio,
uno storico della romanità imperiale, considerato
minore per non aver saputo andare oltre l’esposizione
aneddotica, per non essere cioè stato capace
di “pensare” le vicende che racconta.
L’avvio della narrazione
è comunque esaltante, forse anche per la grandezza
dei personaggi che occupano la scena, mentre si fa
piatta e pettegola a lungo andare, quando le piccinerie
della corte, pur crudeli, si ripetono eguali. Successione
di fatti e dicerie che a volte illuminano l’uomo,
ma che spesso restano elenco di episodi. Non mancano
malignità - o disprezzo? - anche per Cesare
e Augusto (dei rimanenti, da Tiberio a Nerone, l’universale
già sparlava senza ritegno). Un libro comunque
da leggere, per la massa di informazioni di prima
mano che contiene.
Annoto impressioni epidermiche: la gente della Roma
imperiale (plebe, ma non solo), nominalmente padrona
del mondo ma nei fatti priva di qualsiasi peso politico,
pensava ormai solo ai giochi, che si rinnovavano e
celebravano a ogni occasione sempre più fastosi
e spettacolari: gladiatori, belve, corse di cocchi,
fin battaglie navali - e poi teatro. Partecipavano
da attori nobili e donne, che mai era avvenuto prima,
sazi fino al disgusto di una vita a cui non sapevano
più cosa chiedere. Una società corrotta
dal profondo: la moltitudine mangiava per distribuzioni
gratuite, mentre i nobili si disputavano cariche prive
di potere reale e celebravano trionfi senza aver mai
combattuto. L’apparenza della gloria avrebbe
dovuto mascherare la precarietà del vivere
accanto al principe tiranno.
Il quale iniziava sempre ingraziandosi tutti - ma
per primi i pretoriani e le legioni - con donativi
in denaro, cibo e, s’è detto, giochi
senza fine, apparenza di umanità, giustizia,
benevolenza per l’universale. Poi, saldo il
potere, la musica cambiava. Questi Cesari parevano
diventare tutti pazzi, fosse l’onnipotenza incontrastata,
la consapevolezza di non poter fidarsi d’alcuno,
la noia dell’aver tutto ancor prima di desiderarlo.
Ma la storia è uno specchio nel quale, lo si
voglia o no, si riflette il secolo che viviamo - del
resto Croce affermava paradossalmente che la storia
è sempre contemporanea. Leggendo dei Cesari
pensavo al tempo di oggi e alla blandizia subdola
dei governanti di un recente passato, i vari principi
che ci siamo dati (tralascio i nomi, che sono nella
memoria di ciascuno) e ai giochi televisivi distribuiti
a profusione e i premi promessi o fatti intravedere
e il calcio gladiatorio che tutto sopravanza e l’arrivismo
individualistico alla ricerca di una porzione di potere
all’interno della gerarchia del denaro. E gli
adulatori sfrontati, pur colti e intelligenti, che
non si vergognano di nulla: fin di negare l’esistenza
della luce credendo di consolidare il principe sul
cocchio e promuovergli consenso - e acquisire pelosa
riconoscenza per sé. Prebende, tangenti, pensioni
d’annata hanno sostituito le distribuzioni di
grano e di vino - e gli incarichi consolari a chi
non ha bisogno di pane. Il video s’apre ai notabili
di oggi che vogliano recitare una qualsivoglia parte
che li veda se non protagonisti, almeno ragazzi del
coro o ballerine di fila. Capisco d’essere fra
i molti di cui Machiavelli dice (con sarcasmo, ironia,
compatimento?) “si sono immaginati repubbliche
e principati che non si sono mai visti né conosciuti
essere in vero”. Ma non posso fare a meno di
rimuginare questi raffronti.
Consola l’uomo della strada, quidam de populo,
il leggere come tutto infine ruini - prepotenza, ricchezza,
spudoratezza - nella morte politica o comunque fisica
e storica. Consolazione sufficiente? Gli spazi di
libertà tuttavia nei secoli si ampliano e vi
partecipano sempre maggiori moltitudini. Ma la strada
ancora non mostra l’arrivo, l’utopia essendo
sempre utopia: l’individuo troppo spesso costretto
a morire rifiutando il consenso e consegnando ai nipoti
la speranza, pago del solo patrimonio della dignità
personale salvaguardata nonostante le tentazioni e
gli sberleffi del secolo.
DEL PRINCIPE, a cura di a.s.
Una città non si poteva chiamare libera dove
era uno cittadino che fusse temuto dai magistrati
(Machiavelli)
La potenza fondata sulle amicizie conduce a commettere
ingiustizie (Plutarco)
Aver stimato più il
regnare che l’osservanza della fede (Guicciardini)
Per essere gonfio di boria
mi credevo grande (Agostino)
Così menano la loro
vita come in scena, dove un personaggio si è
dentro e un altro si rappresenta di fuori (Daniello
Bartoli)
Dall’unghia si riconosce
il leone (Saramago)
Sappia che si esige di più
da quelli a cui fu più affidato (Benedetto
da Norcia)
Perché ei (il principe)
non può mai spogliare uno tanto che non gli
rimanga uno coltello da vendicarsi (Machiavelli)
Questi sarà sorpreso
per la sua iniquità: ma della sua morte domanderò
conto alla sentinella (Ezechiele)
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