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Storia
LA MORTE
DI MILOSEVIC, L’ULTIMO ERRORE DELL’OCCIDENTE
SUI BALCANI
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L’undici marzo scorso è morto nella
“prigione europea” di Scheveningen Slobodan
Milosevic, in circostanze che non potevano non essere
quanto meno misteriose. Ex Presidente della Repubblica
di Serbia nella federazione jugoslava del dopo-Tito,
a partire dall’87, ed ex capo di governo della
residua “mini Jugoslavia” costituita da
Serbia e Montenegro, il “macellaio dei Balcani”,
come è stato soprannominato dai media internazionali,
è stato presentato come un feroce dittatore
e un sanguinario tiranno, senza considerare, però,
il vasto consenso di cui godeva in patria, anche dopo
la sua detronizzazione a seguito della prima “guerra
umanitaria” della NATO. La sua ascesa politica
è stata caratterizzata, nell’agonizzante
Jugoslavia degli anni ’80, dal voler difendere
a tutti i costi la vecchia nomenklatura comunista
di fronte allo sgretolamento del collante ideologico
comunista, che ha costituito le fondamenta della Jugoslavia
titina. Il paradosso è stato che, per rimediare
a questo sgretolamento, Milosevic ha fatto leva sull’atavico
nazionalismo serbo, rispolverando gli antichi miti
coltivati da scrittori e poeti anticomunisti, così
come ha ricordato recentemente lo scrittore sloveno
Slavoj Zizek. Ed il rispolvero dei vecchi nazionalismi
in un Paese lacerato da un passato di massacri etnici
è stato un contributo decisivo all’esplosione
della polveriera balcanica. La frammentazione delle
identità nazionali su questo territorio, come
noto, è dovuta alla loro travagliata storia.
Per quasi quattro secoli, dalla metà circa
del XV secolo al Congresso di Berlino del 1878, il
confine militare tra l’Impero Austro-Ungarico
e l’Impero Ottomano ha coinciso con l’attuale
confine settentrionale della Bosnia con la Croazia.
Lungo questo confine, su entrambi i versanti, i contadini-soldati
sono immigrati in massa nei secoli, a causa dei privilegi
che venivano loro concessi in cambio della difesa
militare permanente del confine. Ma i massacri più
feroci sono avvenuti nel corso della seconda guerra
mondiale, quando la Croazia ustascia, Stato fantoccio
dei nazisti, adottò la “soluzione finale”
nei confronti dei Serbi, che consisteva nello sterminio
di un terzo di loro, nell’espulsione di un altro
terzo, e nella conversione cattolica del restante
terzo. Soltanto nei primi otto mesi di occupazione
nazista, dall’aprile al dicembre 1941, si stimano
all’incirca tra le 200 e le 300 mila vitt ime
serbe, tra campi di concentramento (soprattutto quelli
di Jasenovac, Stara Gradiska, e Jadovno, dove si stima
che nel corso della guerra vi siano state più
vittime di quante ne abbia fatte l’Impero Ottomano
in cinque secoli di dominazione) ed esecuzioni sommarie
ad opera non solo delle autorità ustascia,
ma soprattutto della popolazione civile.
Per contro, si stima che la resistenza e la rappresaglia
serba abbiano provocato circa un terzo delle vittime
complessive della guerra tra i Croati. In questa situazione,
il comunismo internazionalista della resistenza di
Tito contro i nazionalisti cetnici (serbi) ed ustascia
(croati), fu il collante vincente in grado di garantire
una soluzione unitaria e rispettosa dei vari gruppi
nazionali, e perciò federale, per la futura
Jugoslavia del dopoguerra. L’accelerazione nazionalista
operata da Milosevic ha contribuito, pertanto, all’esplosione
dei nazionalismi anche nelle altre Repubbliche della
Federazione jugoslava.
Questo fenomeno si è inizialmente manifestato
con la progressiva eliminazione delle prerogative
della Provincia Autonoma del Kossovo, riconosciute
dalla Costituzione del ’74, all’interno
del territorio della Repubblica Serba, a partire dall’87,
ovvero dal momento in cui Milosevic ne assunse la
presidenza. Furono inizialmente allontanati dai loro
incarichi i dirigenti più sensibili alle rivendicazioni
albanesi (direttori di quotidiani e riviste, giornalisti
televisivi, dirigenti del PC kossovaro, ecc.), e fu
aumentata la repressione giudiziaria nei confronti
dei militanti kossovari, che richiedevano lo status
di “Repubblica” per il Kossovo. Nell’89,
per contro, fu revocato lo status di Provincia Autonoma.
Le conseguenti proteste furono represse nel sangue,
con 24 morti ed oltre mille arresti. Per il nazionalismo
serbo, infatti, il Kossovo costituisce “un punto
di fissazione assoluta, un luogo in cui tutto converge,
un luogo indivisibile in cui ogni elemento di riflessione
che non sia a sostegno dell’istigazione degli
antagonismi viene scartato”, mentre per l’ex
giornalista, letterato e fondatore del Partito di
Rinnovamento Serbo Vuk Draskovic, il Kossovo è
“per i Serbi l’epicentro della loro cultura,
della loro fede, e della loro memoria nazionale. Su
questo spazio relativamente stretto, per esempio,
hanno costruito 1500 chiese e monasteri. Là,
il 28 giugno 1389 hanno affrontato le forze ottomane,
tre volte superiori alle loro, e perso la battaglia.
Questa regione è divenuta il simbolo della
tragedia nazionale, ma anche quello di un’aspirazione
secolare a cacciare i Turchi. Dal 28 giugno 1389 fino
all’autunno del 1912, quando l’esercito
serbo liberò il Kossovo nel corso della prima
guerra balcanica, le ragazze serbe hanno portato dei
foulard neri in segno di lutto per la libertà
perduta”. Il Pa rtito di Rinnovamento Serbo,
che attualmente fa parte della coalizione del governo
“democratico” del Presidente Kostunica,
era nei primi anni ’90 all’opposizione
di Milosevic, assieme all’altro partito ultra-nazionalista,
quello radicale di Seselj. Va ricordato, peraltro,
che il 28 giugno è il giorno di San Vito (Vidov-Dan),
il patrono della Serbia; il 28 giugno del 1914 è
anche, come noto, il giorno dell’attentato a
Sarajevo da parte di estremisti serbi all’arciduca
Francesco Ferdinando d’Austria ed alla moglie
che fece esplodere la prima guerra mondiale. Il 28
giugno 1989, ancora, nel 600° anniversario della
battaglia di Kosovo-Polje, Milosevic tenne in quella
stessa località un discorso ultra-nazionalista,
al seguito di migliaia di macchine decorate e di una
delegazione del clero ortodosso. Nel 1990, il governo
della Provincia fu destituito ed il Parlamento sciolto.
I media e le scuole in lingua albanese furono interdetti,
ed i dipendenti pubblici albanesi espulsi e sostituiti
da serbi, sulla base di una legge che prevede il ripopolamento
serbo della regione. Da allora, il Kossovo è
stato trasformato in un regime di apartheid, con arresti
e torture arbitrari. Tra il 1987 ed il ’90,
pertanto, l’escalation nazionalista serba provocò,
a sua volta, un risveglio dei nazionalismi nelle altre
Repubbliche, specie in considerazione di ciò
che stava avvenendo proprio in Kossovo.
Il crollo del blocco sovietico tra l’89 ed il
’90 ha agito da moltiplicatore alle spinte centrifughe,
che si sono tradotte nella sconfitta dell’ex
PC e nella vittoria dei partiti nazionalisti nelle
prime elezioni libere del ’90, con la significativa
eccezione della Serbia, il cui principale partito
nazionalista era, come visto, proprio l’ex comunista.
Un’altra, sia pure parziale, eccezione alla
vittoria delle forze nazionaliste si è registrata
in Slovenia, dove la vittoria del cartello nazionalista
di centro-destra DEMOS è stata netta, ma non
schiacciante, perché l’ex Lega dei comunisti
slovena (ora “Partito di Rinnovamento Democratico”)
ottenne circa il 30 % dei suffragi, grazie al carisma
del suo leader Milan Kucan, successivamente eletto
Presidente della Repubblica. Ispirandosi ai princìpi
della socialdemocrazia europea, Kucan era considerato
il vero anti-Milosevic. Fu lui, assieme a pochi altri
membri della Lega dei Comunisti, per lo più
croati (Ivica Racan, Ante Markovic,…), a tentare
di realizzare, senza successo, una graduale trasformazione
democratica del Paese mantenendone l’unità.
Ma evidentemente, quando il collante ideologico si
sgretola, non si può evitare che vengano gettati
il bambino e l’acqua sporca (salvo poi ritrovarsi
nel putrido stagno dei nazionalismi). Alludendo a
costoro, infatti, Zizek accusa: “I difensori
democratici di Tito si misero fuori gioco da soli,
[…]” poiché “per difendere
le potenzialità democratiche contro la minaccia
nazionalista pretesero di parlare a nome della stessa
ideologia in contrapposizione alla quale si era definito
il movimento democratico jugoslavo”.
In questo modo, Zizek fa propria l’insensata
argomentazione di Milosevic, che infatti viene di
seguito esplicitamente richiamata: “Voi siete
ancora posseduti dai fantasmi di un’ideologia
che ha perso il suo potere, mentre io sono il primo
politico che ha pienamente preso atto delle conseguenze
del fatto che Tito è morto!” (corsivo
originale). Dopo le elezioni del ‘90, la Slovenia
e la Croazia inventarono un’astuta proposta
politica per ottenere l’indipendenza dalla Federazione:
la trasformazione di quest’ultima in Confederazione,
sul modello (almeno in teoria) della CSI nell’ex
URSS. In caso di (ovvio) rifiuto da parte delle altre
Repubbliche, in particolare quella serba, allora Slovenia
e Croazia avrebbero proceduto con una secessione unilaterale
(come effettivamente avvenne), con la legittimazione
popolare di un referendum dal chiaro esito plebiscitario.
In questo contesto, la reazione della Comunità
Internazionale, “lungi dal cercare di conoscere
e di capire i dati della crisi, ha di fatto giocato
a fare il pompiere piromane, assumendo una serie di
posizioni che sono state come l’olio sul fuoco
da spegnere”. Se agli inizi del ‘91, infatti,
la comunità internazionale, alle prese con
la prima guerra tecnologica di Bush padre in Iraq,
aveva garantito pieno sostegno alla presidenza federale
jugoslava (che nel ’91 era appannaggio del croato
Ante Markovic ), così non fu dopo la proclamazione,
tramite referendum, della secessione di Slovenia e
Croazia nel mese di giugno ’91, allorché
Germania, Austria ed il Vaticano presero subito le
difese dei due Stati secessionisti. La diplomazia
vaticana, che in passato si era sempre distinta per
prudenza e cautela, è stata la prima a riconoscere
i due stati cattolici. Il problema era, evidentemente,
che i confini delle sei Repubbliche, definiti nel
’43 a Jaice, erano stati concepiti all’interno
di una cornice federale.
Persino la lungimirante Costituzione del ’74,
l’ultima varata dal maresciallo Tito, prevedeva
la possibilità di secessione di alcune Repubbliche
dalla Federazione, a patto però di condividerne
unanimemente le condizioni, nel rispetto delle minoranze
presenti sul territorio. La secessione degli Stati
cattolici, invece, è stata del tutto unilaterale,
come si è visto, ed è stata da subito
supportata da un’imponente campagna mediatica
austriaca e tedesca, contro “il terrorismo delle
bande serbe in Croazia-Slavonia”, a favore della
“latinità dei Croati invasi dai Bizantini”,
e proclamando che “la barbarie serba non appartiene
all’Occidente civilizzato!” (sic!). Se
per la Slovenia la secessione è stata sostanzialmente
indolore, grazie all’estrema omogeneità
etnica della sua popolazione, così non è
stato per la Croazia, sul cui territorio, e in particolare
nella Slavonia, vi risiedeva all’incirca il
20% di popolazione serba che avrebbe voluto, vista
la situazione, proclamare, a sua volta, la secessione
da uno Stato nazionale croato. L’intervento
militare della Federazione jugoslava, ormai rimasta
sotto il controllo dei Serbi, in Slovenia durò
una settimana e provocò poco più che
una decina di morti, quasi tutti facenti parte dell’esercito
federale; ma in Croazia fu molto più cruento,
vista la caratterizzazione etnica del territorio.
L’intervento, del resto, era volto alla difesa
della “intangibilità dei confini”,
un principio fondamentale del diritto internazionale.
L’argomentazione dei Croati era, peraltro, contraddittoria
e pretestuosa poiché affermava, da un lato,
che la sovranità della Repubblica secessionista
si dovesse esercitare su tutto il territorio, a prescindere
dalle minoranze presenti, ma dall’altro, pretendeva
di accorpare a sé i territori dell’Herzegovina
occidentale, etnicamente a maggioranza croata. Inoltre,
se si affermava il diritto ad una secessione unilaterale,
perché le minoranze etniche serbe della Slavonia
e della krajna di Knin non avrebbero potuto fare altrettanto?
E’ evidente: perché si è voluto
evitare un negoziato, e si è preferito affrontare
una guerra (con le armi fornite dall’Occidente
compiacente) dalle conseguenze disastrose, visto il
passato di quel Paese. E invece, come si è
visto, agli occhi della stampa e dei media internazionali
la colpa è stata unicamente addossata al sanguinario
nazionalismo serbo (opportunamente sovrapposto all’immagine
del comunismo mangiapreti, che ostinatamente resiste…),
e del “macellaio” alla sua testa. Per
contro, l’argomentazione dei Serbi era speculare
a quella dei “nemici” Croati: ogni gruppo
nazionale ha il diritto di vivere in unico Stato,
anche se la dislocazione nello spazio della popolazione
non è contigua, bensì “a macchie”.
Anche in questo caso la contraddizione è palese:
se ogni gruppo etnico dovesse vivere in un unico Stato,
perché, allora, gli albanesi del Kossovo non
avrebbero (avuto) il diritto di fare secessione ed
unirsi all’Albania? La spinta “geopolitica”
al riconoscimento dell’indipendenza dei due
Stati secessionisti da parte dell'area “mitteleuropea”
ha cominciato ad avere successo vero la fine del ’91:
di fronte all’evidenza del conflitto già
in atto, anche Francia e Gran Bretagna sono divenute
sempre più possibiliste, e a tal fine è
stata decisiva la sottoscrizione del Trattato di Maastricht,
avvenuta il 9 dicembre ’91. In cambio dell’aggancio
irreversibile della Francia alla Germania e del franco
al marco, attraverso l’Unione Monetaria, il
Presidente Mitterrand ha concesso il riconoscimento
di Slovenia e Croazia. Questo riconoscimento ha avuto
conseguenze drammatiche sulla situazione in Bosnia.
Il riconoscimento da parte della Comunità internazionale
delle secessioni unilaterali dei due Stati ha innescato,
inevitabilmente, la miccia sulla polveriera bosniaca,
la cui popolazione, nel ’91, era per il 44%
musulmana, per il 31% serba, per il 17% croata, e
per il restante 8% costituita da altre minoranze (per
lo più montenegrini e albanesi). Poteva, dunque,
la più “jugoslava” delle sei Repubbliche
restare tranquillamente, con una popolazione così
eterogenea, all’interno di una residua Federazione
composta in schiacciante maggioranza da Serbi? Certamente
no, specialmente in considerazione dei nazionalismi
montanti. E infatti, anche qui in occasione delle
prime elezioni libere, nel novembre ’90, i partiti
nazionalisti riportarono una schiacciante vittoria
su quelli “internazionalisti”, per lo
più provenienti dall’ex PCJ. Ne scaturì
un governo sostenuto dai tre partiti nazionali delle
tre principali etnie, destinato ad avere vita breve:
i Serbi bosniaci si opposero, infatti, alla dichiarazione
di neutralit à della Bosnia rispetto al conflitto
serbo-croato, e la reazione dei Croati e dei Musulmani
bosniaci fu quella di richiedere, alla stregua di
Slovenia e Croazia, la secessione unilaterale con
un referendum, tenutosi il 29 febbraio e 1° marzo
’92. Boicottato dai Serbi, il referendum si
trasformò in un plebiscito croato-musulmano.
Contestualmente al riconoscimento dell’indipendenza
della Bosnia-Herzegovina, da parte della Comunità
Internazionale, i territori di popolazione a maggioranza
serba proclamarono a loro volta la loro indipendenza
dai territori bosniaci. Era il 6 aprile 1992: il conflitto
più cruento dalla fine della seconda guerra
mondiale in Europa era iniziato! Ecco, dunque, le
gravi colpe dell’Occidente sui Balcani: 1) iniziale
sottovalutazione del rischio di esplosione dei nazionalismi,
che si tradusse in un mancato appoggio, se non puramente
formale, dell’azione del Presidente Ante Markovic;
2) una volta percepito il concreto rischio di esplosione
dei nazionalismi, si è preferito scaricare
subito tutta la colpa sul “dittatore”
(?) Milosevic, e assecondare la risorta spinta geopolitica
della Germania riunificata verso i Balcani, e la battaglia
“in difesa” del cattolicesimo del Vaticano
(condotta, peraltro, da un papa polacco che aveva
fatto dell’anticomunismo una priorità
strategica, come gli ingenti finanziamenti occulti
dello IOR a Solidarnosc testimoniano); 3) grave sottovalutazione,
da parte della Comunità internazionale, di
cosa avrebbe comportato in Bosnia il rapido e prematuro
riconoscimento degli Stati secessionisti (Slovenia
e Croazia); 4) si è completamente ignorato
il rapporto della Commissione Badinter, che era stata
espressamente istituita dalla CEE per valutare la
legittimità nei processi secessionisti conseguenti
al crollo del blocco sovietico, e che aveva espresso
parere contrario alla secessione unilaterale delle
Repubbliche della Federazione jugoslava. 5) per almeno
una decina di anni è stata completamente ignorato
lo stillicidio kosovaro; 6) assoluta impotenza dell’Unione
Europea sul conflitto bosniaco, non essendo stata
in grado non solo di risolverlo, ma nemmeno di intervenire.
Ci sono voluti, infatti, ben quattro anni, e l’intervento
degli USA, per imporre la fine del conflitto con i
Trattati di Dayton (che, pur non essendo del tutto
soddisfacenti, hanno pur sempre garantito la pace);
7) quando si è finalmente ritenuto opportuno
intervenire sulla questione kosovara, lo si è
fatto non con una negoziazione tra le parti (a Rambouillet
si era arrivati vicini ad un accordo…), ma con
la prima aggressione da parte di una coalizione di
Stati (la NATO) ad uno Stato sovrano, per di più
senza aver nemmeno trovato, ad otto anni di distanza,
una soluzione a l problema, giacché ancor oggi
la Regione è sotto il controllo di forze armate
internazionali; 8) aver considerato Milosevic addirittura
alla stregua di Hitler, Mussolini, Pinochet o Pol
Pot, senza considerare nemmeno il consenso elettorale
che il Presidente conseguiva; 9) dopo aver ostinatamente
preteso il giudizio dello stesso Milosevic, presso
il Tribunale dell’Aia, infine, lo si lascia
morire così in carcere. A tal proposito, non
ha rilevanza se è morto d’infarto o è
stato avvelenato: in entrambi i casi, l’istituzione
che dovrebbe tutelare la democrazia e la libertà
non ha garantito gli elementari diritti del detenuto:
la pietà (ovvero concedergli le cure di cui
necessitava), e la tutela. Le parole più appropriate
per la conclusione sono proprio quelle di Zizek: “Invece
di esercitarsi in discutibili variazioni sul tema
“il tiranno è riuscito dunque a sfuggire
alla sua meritata punizione”, l’occidente
dovrebbe usare l’opportunità della morte
di Milosevic per riflettere sui fallimenti della propria
politica”.
Andrea Manganaro
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