01.10.07
La guerra giusta. Una riflessione filosofica
di VOLKER DRELL
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Il diritto naturale classico,
che è stato fondato da Hugo Grotius nel XVI
secolo, immaginava la guerra come una “normalità”
nelle relazioni internazionali. Il suo concetto regolava
le condizioni giuste (modo di dichiarazione ecc.),
i mezzi giusti e il giusto comportamento dopo la sua
fine. Questa idea prevedeva una guerra che poteva
essere fatta da entrambi i contendenti in una maniera
giusta.
Le esperienze con la prima
e finalmente con la seconda guerra mondiale hanno
cambiato questa percezione in una maniera fondamentale.
Nel 1928 il patto tra Kellogg e Briand, i ministri
esteri degli Stati Uniti e la Francia, fissava per
la prima volta a livello internazionale la messa al
bando della guerra come mezzo politico. La Carta delle
Nazione Unite nel 1945 la definiva come “il
flagello dell'umanità”.
Tuttavia, questa presa di coscienza
e dichiarazione di intenti non ha creato in alcun
modo un mondo pacifico. Né direttamente dopo
la seconda guerra mondiale né ai tempi nostri
le guerre sono svanite. Benché ci sia una proscrizione
della guerra e a volte si veda una gran massa in strada
che manifesta la sua volontà pacifica, come
all’inizio dell' ultimo attacco statunitense
all'Iraq nel 2003, i governi democratici possono mobilizzare
anche un sostegno per le loro attività bellicose.
In altre parole: non si vede solo una volontà
per la pace, ma anche la disposizione mentale e naturalmente
materiale a fare la guerra.
Questa disposizione non è
limitata ad una piccola classe politica, come si pensava
ai tempi dell’assolutismo europeo, dove i monarchi
o la piccola classe degli aristocratici decisero per
una guerra senza il consenso del popolo. Oggi si vede
che anche negli stati democratici il popolo, oppure
la sua maggioranza, possono essere convinti della
necessità o legittimità di un impegno
militare.
Le vittorie elettorali di Merkel
in Germania, di Blair in Inghilterra e soprattutto
di Bush negli Stati Uniti dimostravano che una politica
d’intervento militare può convincere
una maggioranza alle urne. Ancora di più: la
possibilità dei governi del West - “avanguardia
nella lotta per la democrazia e i diritti umani”
- di spendere una gran parte del loro prodotto nazionale
per le forze armate, la sua notevole capacità
di mobilitazione delle risorse personali (servizio
militare) oppure la cultura del riconoscimento del
servizio militare (che sta cambiando), dimostra l’ampia
accettazione e rispetto degli affari militari.
Ma questa accettazione è
senza nessuna ragione? L'espressione “guerra
giusta” è già un paradosso in
sé? I sostenitori di questo tipo di guerre
-espliciti o non espliciti- sono forse ciechi? Sono
stupidi? O sono senza volontà propria –
solo uno strumento per gli interessi dei pochi?
In seguito voglio analizzare qualche aspetto delle
ragioni che sottendono alla legittimazione della guerra.
Con questo tema non faccio una analisi politica delle
“cause nascoste” o dei “veri motivi”
degli attori decisivi. Mi interessano piuttosto le
categorie morali con le quali si giudica la guerra.
E' chiaro, però, che queste categorie devono
rendere conto dei fatti. Tuttavia non si possono ridurre
le une agli altri.
Tesi uno: la “guerra giusta” è
pensabile. Questo vuol dire che ci sono delle ragioni
e delle condizioni che possono giustificare l’uso
delle armi al livello internazionale.
Ad un primo sguardo l' espressione
“guerra giusta” sembra essere un paradosso.
Una situazione di giustizia dovrebbe essere una situazione
pacifica. Non “la ragione del più forte”,
ma il riconoscimento reciproco regolerebbe le relazioni
tra le persone. Ognuno e ognuna venerebbero rispettati
come esseri con propri bisogni e desideri. E l’unico
limite alla propria libertà di esprimersi e
di realizzare i propri interessi dovrebbe essere la
libertà degli altri. I conflitti andrebbero
risolti in un quadro di argomentazione e consenso.
La violenza o la forza invece non generano comprensione
e rispetto, ma solo sottomissione, ciò vuol
dire non una situazione morale stabile, ma una tregua
precaria.
Questo concetto ideale indica
la direzione di ogni morale universalista. Però
la realtà sociale è caratterizzata dagli
squilibri di potenza e anche dal disprezzo tra gli
esseri umani. I sentimenti e le idee morali sono solo
degli imperativi, formulano un dovere non un essere,
vuol dire che c’è la possibilità
di agire in un modo diverso. Per il mio discorso non
importa a questo punto la causa “del male”.
Ciò che conta è l'affermazione dei diritti
comuni di ogni essere umano e la realtà delle
loro lesioni.
Secondo me, si può legittimare
l’uso della forza militare per la realizzazione
di diritti umani in analogia alla legittimazione del
potere dello stato civile. Una sua legittimazione
classica si trova nell’opera Kantiana. Kant
dice che:
“un’azione è
giusta, quando per mezzo di essa, o secondo la sua
massima, la libertà dell’arbitrio di
uno può sussistere con la libertà di
ogni altro, secondo una legge universale.”
Per garantire questa legge
morale universale si necessita di una forza superiore,
neutrale, cioè la forza statale. L’uso
della forza verso i suoi cittadini e cittadine può
essere giustificato in questo modello solo attraverso
l’idea della garanzia della libertà dell’arbitrio
dell'individuo. Si deve aggiungere, però, che
nella dimensione sociale non conta solo la libertà
formale davanti alla legge, ma anche le possibilità
materiali di realizzare la propria libertà.
In questo senso l’uso
legittimo della forza attraverso lo stato (e deve
essere distinto l’uso legittimo dall’uso
legale) non è un ostacolo o una restrizione
della libertà ma, al contrario, una negazione
o una eliminazione di un ostacolo per la libertà.
Nel caso di un intervento umanitario il significato
è questo: riguardo ai fatti dei massacri, delle
deportazioni e degli altri fenomeni della guerra come
la fame, le malattie e le torture, un uso delle forze
armate per impedirli e per garantire i diritti fondamentali
appare come una negazione di un ostacolo per la libertà
o per i diritti umani. In altre parole: non sembra
esserci differenza tra una pallottola o un missile
sparati da un combattente di un esercito imperialista
o da un soldato dei caschi blu. I risultati sono gli
stessi: distruzione, mutilazione, morte. C’è,
però, una differenza sostanziale: l’una
è una lesione dei diritti umani, mentre l’altra
è (o almeno vorrebbe essere) la realizzazione
o il tentativo di garantire diritti umani.
La conclusione è che
un intervento umanitario può essere una guerra
giusta, se è intentato come un intervento esterno
che vuole garantire i diritti umani. Secondo me questa
non è solo una legittimazione, ma anche un
dovere morale per un intervento .
Si deve aggiungere che la legittimazione
dell’intervento umanitario dipende anche dalla
adeguatezza dei mezzi usati e dalla sua prospettiva
di successo. Per questo non ha senso rispondere a
una deportazione della popolazione di un paesino con
il bombardamento di tutto lo stato, oppure alla rimozione
militare di un regime che tormenta e massacra parte
della sua popolazione con la distruzione completa
di una società attraverso una guerra civile
con milioni di vittime.
Tesi due: ci sono dei problemi
gravi alla applicazione dei criteri morali.
Può sembrare che l giudizio sulla questione
della legittimazione di una guerra incombente o reale
sia facile. Si vede, però, che la discussione
su questa questione può essere molto lunga
e difficile. Spesso c'è bisogno di un grande
dibattito e di molto tempo per riconoscere quali motivi,
interessi e scopi hanno determinato una guerra e chi
è stato il colpevole. Per esempio la questione
dell'inizio della Prima Guerra Mondiale è stata
discussa in Germania per molto tempo. E lo storico
Fritz Fischer ha provocato un grande dibattito tra
gli storici tedeschi ma anche nella società
negli anni 50, cioè dopo 40 anni, quando ha
affermato che la colpa per lo scoppio della guerra
fosse solo del governo tedesco.
Questo è un esempio per la carenza di informazioni
che c’è a vari livelli.
È ovvio che il grado
di informazione di un governo è normalmente
molto più alto di gran parte della popolazione.
Anche una lettura regolare dei giornali e riviste
informative trasmette solo una parte del sapere del
governo, con tutti i suoi esperti e professionisti.
Inoltre il giudizio adeguato della scena politica
ha bisogno di esperienza e anche di un sapere storico
che permettano una valutazione confacente.
Però anche gli attori politici non agiscono
in una situazione di informazione completa. Sono dipendenti
da altri esperti e molti giudizi sui fatti o le situazioni
nelle altre regioni del mondo, che contengono per
la maggior parte valutazioni e calcoli approssimativi
invece di un sapere sicuro.
Per l'opinione pubblica il
problema viene aggravato dalla “imperfezione”
dei mass media. Così l'attenzione del pubblico
democratico può essere influenzata nella sua
limitata percezione. Alcune immagini crudeli e qualche
commentario suggestivo ripetuti mille volte possono
creare l'idea di una “nuova Auschwitz”
o di un altro genocidio che giustificherebbe qualunque
mezzo di forza.
I limiti dell'informazione
aumentano quando si vogliono conoscere i motivi veri
degli attori politici. Come sapeva già Machiavelli
le bugie sono un mezzo utile e diffuso nella politica:
una cosa è ciò che dicono gli attori
all'opinione pubblica, un'altra sono i loro veri motivi.
O come dice Luhmann, l'ipocrisia è il mezzo
per una “pubblicità dell'approvazione”.
Ciononostante la realtà dell'inganno non è
la prova per la amoralità completa della politica.
Anzi, il fatto che la politica debba giustificarsi
e che ciò le costi molto tempo e fatica, dimostra
l'importanza dei sentimenti morali.
Un altro punto già notato
è il problema di valutare la probabilità
del successo e gli effetti possibili. Per azioni di
un certo livello non si possono prevedere tutti gli
effetti con sicurezza. Un esempio è l'ultima
guerra degli Stati Uniti contro l'Iraq. Si può
affermare che i piani del Pentagono non prevedevano
né un crollo completo dello Stato dopo la sconfitta
di Saddam Hussein, tantomeno l'attuale guerra civile.
(Credo che il giudizio sulla politica di Bush sarebbe
ben diverso se solo egli fosse riuscito a fondare
uno stato stabile.)
La contingenza del futuro non
è solo un problema dell'amministrazione Bush.
Per ogni intervento non si può dire con sicurezza
se esso avrà successo oppure se peggiorerà
soltanto le cose. In questo senso la guerra degli
Stati Uniti contro la Germania Nazista è stata
un successo, invece il suo intervento in Somalia non
può essere considerato tale.
Tutti questi argomenti e limitazioni
per il giudizio morale su una guerra non devono suscitare
disperazione o cinismo. Non ci si deve e non ci si
può astenere sul suo giudizio e non ci si può
sottrarre alla propria responsabilità perché
anche il non-agire causa degli effetti che possono
significare la morte per migliaia di persone.
Questi argomenti non ci devono
condurre ad emettere giudizi troppo affrettati. Forse
ci spronano a un impegno più grande per trovare
il giudizio adeguato e la buona decisione politica.
Tesi tre: Anche il diritto
di autodifesa è una ragione per una guerra
giusta. L'identità nazionale causa qualche
confusione, però. Ella può essere superata
con un concetto di giustizia internazionale che tiene
conto anche delle dimensioni economiche, sociali e
ambientali.
Senza dubbio c’è
un diritto di autodifesa. Quando qualcuno mi attacca
è mio diritto naturale difendermi. Posso anche
scappare via oppure omettere la resistenza se l’aggressore
mi sembra troppo forte o temo degli effetti più
gravi. Ma se mi difendo con i mezzi adeguati nessuno
può contestare che ci sia un mio diritto.
Ovviamente questo diritto vale
anche per le entità collettive e anche la Carta
delle Nazione Unite riconosce il diritto di di difesa
per uno Stato. Una difficoltà di questa analogia
dei diritti per un individuo e uno Stato è
la soggettività particolare di quest'ultimo.
L'evidenza del diritto è
data soltanto alla presenza di certe condizioni. Queste
sono la chiara responsabilità della aggressione
e la precedente assenza di relazioni tra le parti,
ossia la mancanza di cause generanti conflitto. Per
esempio: anche il rapporto di uno schiavo col suo
padrone può essere tranquillo, pacifico e gran
parte della storia umana dimostra che può essere
anche legale. Però dal nostro punto di vista
morale una ribellione dello schiavo non sarebbe stata
un atto ingiusto, perché condanniamo lo stato
di schiavitù.
Tra gli stati moderni le due condizioni, assenza di
relazioni e chiara responsabilità, non ci sono
sempre date. Questo fatto risulta, tra l’altro,
dalle strutture economiche concrete e dal fenomeno
della violenza strutturale.
Mi devo limitare solo a qualche
appunto:
L'economia moderna è in gran parte una struttura
globale. Ci sono tante interdipendenze per cui le
economie nazionali dipendono eminentemente dagli avvenimenti
fuori del loro territorio. La crisi economica mondiale
degli anni 30, la crisi del petrolio negli anni 70
o il crollo della borsa in estremo oriente all'inizio
del nostro millennio sono gli esempi più illustri
di questo fatto. In questi casi abbiamo assistito
al crollo di intere economie nazionali, oppure nei
casi più fortunati, a danni estremamente gravi.
Inflazione e impoverimento, perdita della fede per
un buon avvenire, lotte sociali aperte, sono solo
alcuni dei tanti risultati negativi di questa crisi.
I pochi esempi mostrano che
gli interessi nazionali per una economia forte e stabile
non rappresentano solo gli interessi concreti delle
classe dominante ma di tutte le classi – anche
se i rischi sono ben diversi. Perciò il benessere
della popolazione dipende per gran parte dagli avvenimenti
e sviluppi che si sottraggono all’influsso della
sovranità di uno stato. Gli interessi nazionali
– che non coincidono esclusivamente con gli
interessi dei ricchi di guadagnare sempre di più
– trascendono i confini dello stato e travalicano
l'identità nazionale.
Le economie avanzate hanno
bisogno di risorse come petrolio, gas, minerali metalliferi
ecc. Molti stati, però, sono costrette a importarle
dall'estero. Ogni atto sovrano dei paesi che detengono
la proprietà delle materie prime può
cambiare i prezzi delle risorse (per esempio attraverso
la nazionalizzazione o la fondazione di un cartello
– come l'OPEC) e influenzare fortemente le economie
nazionali dei paesi industriali. In questo senso un
aumento dei prezzi delle materie prime mediante un
atto unilaterale ferisce gli interessi nazionali e
il disturbo della consegna può essere interpretato
come un attacco allo stato importatore. Questo è
successo negli ultimi mesi quando la Russia ha chiuso
per qualche giorno le sue pipelines al west. Il governo
tedesco, e un gran parte della stampa, erano molto
preoccupati da tale “dimostrazione di potere”
e si parlava già di una aggressione di Putin.
In altre parole, le aggressioni non hanno solo la
forma militare e quasi tutti i conflitti hanno una
storia fatta di provocazioni e di escalation. Si potrebbe
dimostrare che il sistema capitalistico globale favorisce
e provoca i conflitti tra gli stati sovrani.
Un altro punto che confonde
la semplice percezione di un aggressore è il
fatto della violenza strutturale. Come nell'esempio
dello schiavo, che resiste legittimamente contro il
suo padrone, ci sono delle strutture globali –
anche legali – che causano molte vittime senza
sparare alcun colpo. Alcuni esempi – sempre
dalla sfera economica – sono le condizioni del
mercato mondiale. Le sue regole vengono dettate dai
paesi potenti a esclusivo vantaggio delle proprie
economie nazionali. Non solo le enormi sovvenzioni
per l'agricoltura presenti sia nella Unione Europea
che negli Stati Uniti, ma anche le tasse sui prodotti
di importazione proteggono i mercati dalle merci dei
paesi in via di sviluppo, i quali sono costretti ad
aprire i propri ai beni occidentali. Oppure le regole
per i brevetti dei prodotti farmaceutici che impediscono
la diffusione in massa e a un buon prezzo degli antidoti
contro l'AIDS.
È ovvio che non solo i fucili ammazzano ma
anche le leggi hanno questo potere.
Si potrebbe aumentare facilmente il numero degli esempi
relativi alla violenza strutturale con cui lo stato
stabilisce regole che provocano danni enormi. Le relazioni
fra i sessi, le cause del cambiamento climatico e
altre fattori economici feriscono spesso i diritti
umani fondamentali senza che le stesse siano riconosciute
come aggressioni violente.
Dopo questo ragionamento abbozzato voglio formulare
i risultati e qualche conseguenza che possiamo poi
discutere più tardi. Tali risultati si dividono
in due tipologie: filosofici e politici.
Per la parte filosofica volevo dire che il termine
“guerra giusta” non è un paradosso.
Si può pensare l'intervento umanitario come
la realizzazione dei diritti umani anche se questo
intervento significa molte vittime – sia civili
che militari. Non dico che l'azione militare è
l'unico modo di intervenire o di pacificare (una parola
che non mi piace per via della sua storia). Finalmente,
pero, in alcuni casi l'uso delle forze armate –
e in particolare delle truppe di terra - può
essere l'ultimo e l'unico mezzo per fermare i più
gravi e terribili conseguenze. Non si deve dimenticare
in questo contesto che anche la diplomazia e il multilateralismo
si rivolgono a un potere che hai alle spalle.
Con questi ragionamenti voglio contrastare quella
sorta di pacifismo, che possiamo definire “ingenuo”,
il quale sostiene un ideale morale per certi versi
condivisibile, ma che però non ha a disposizione
un concetto, o una pratica politica, generalizzabile.
In qualche misura sono anche contrario a una lettura
marxista che pensa la politica come una sfera dove
la morale non è una forza determinante ma viene
solo determinata.
Questo ragionamento mi guida
al prossimo punto. La concezione di un ordine morale
– morale intesa in un senso enfatico –
deve rendere conto anche degli aspetti economici,
ambientali, culturali e sociali. Non è sufficiente
pensare nelle categorie “vecchie” di una
identità fissa e distinta. Una posizione morale
– o un concetto di giustizia internazionale
– deve criticare lo status quo riflettendo alla
base l'idea di un'umanità universale ed egalitaria.
A questo punto si deve porre la domanda se gli stati
moderni siano in grado di realizzare tale concetto
senza cambiamenti essenziali.
Sul piano politico pongo l'accento
sulla importanza di un dibatto pubblico. Vorrei fare
rifermento ancora una volta a Kant. Egli credeva negli
effetti morali di una discussione pubblica. Secondo
il suo pensiero, i politici quando devono giustificarsi
pubblicamente, sono costretti a usare argomenti capaci
di creare consenso. Kant era convinto che questo fatto
sarebbe già stato sufficiente a controllare
e regolare la politica in una maniera sempre più
morale in quanto il popolo non può agire contro
se stesso.
Naturalmente si può non condividere la sua
opinione. Kant era una autore che rappresentava l'ottimismo
di una borghesia nascente. A tale merito le nostre
esperienze sembrano porci più dubbi che certezze.
Non solo la concentrazione dei mass media in poche
mani, la plutocrazia nella sfera pubblica, dove si
possono lanciare delle iniziative costose al fine
di creare e diffondere un pensiero anti-illuminista,
ma anche le dinamiche nascoste che favoriscono l'opinione
comune della gente – quali i pregiudizi, le
verità solo accennate che si trasformano in
falsità. Tutto questo potrebbe farci disperare,
e spesso così accade. Cinismo, ignoranza e
il ritiro nel proprio ambito privato ne sono le conseguenze.
Per via di queste critiche, però, non si può
abbandonare il concetto ideale di costituzione e strutturazione
della opinione pubblica . Si deve invece comprendere
che questo ideale non è uno scopo che si realizza
da se stesso attraverso una necessità storica
– come pensava ancora Kant – ma questa
deve diventare la nostra sfida: lavorare per un ideale
anche se non è realizzabile completamente.
In questo senso l'opinione pubblica dovrebbe essere
uno spazio per riflettere, discutere e controllare
gli affari politici, uno spazio dove si costituisce
il consenso ma anche la critica, uno spazio finalmente
essenziale per la vita e la coesione delle società
democratiche.
In questo spazio la discussione
sulla questione della guerra giusta trova il suo luogo.
Ed è anche qui che la morale sviluppa la sua
forza. Spero che il mio discorso abbia dato indicazioni
in merito alla necessità di concepire un concetto
sempre più ampio di giustizia internazionale
e abbia anche spiegato il dovere di confrontarsi con
i problemi morali nel contesto della guerra.
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