La grande guerra
raccontata in tre romanzi
di FABRIZIO SIMONCINI
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Un anno sull’Altipiano è un libro incredibilmente
bello. Chi ha interesse a conoscere l’assurda
tragedia della grande guerra non può permettersi
di non leggere il romanzo di Emilio Lussu. Per amare
la pace non c’è bisogno di particolari
esperienze cristiane o no-global, è sufficiente
leggere gli autori giusti che hanno vissuto sulla
propria pelle e poi raccontato quell’evento,
o meglio quell’orrore, che è la guerra.
Terminata la lettura di questo capolavoro letterario
si resta turbati dagli avvenimenti che vi sono narrati,
storie semplici ma che sconvolgono grazie a una scrittura
leggera che avvolge l’intera opera di una luce
malinconica.
Nonostante le abbia vissute in prima persona, Lussu
non lascia mai trasparire alcun giudizio morale di
approvazione o condanna, sono i fatti a parlare con
la loro crudele e assurda verità. Quattro lunghi
anni vissuti dall’autore in prima linea sul
fronte carsico e successivamente sull’altipiano
di Asiago. Anni drammatici passati continuamente in
trincea a pochi metri dal nemico e a stretto contatto
con la morte, sempre pronti a lanciare, sotto la guida
di comandanti inetti e grotteschi, inutili e sanguinosi
assalti. Nel libro viene narrato un solo anno di guerra
che va dal giugno 1916 al luglio 1917.
Lussu racconta le vicende della Brigata Sassari a
cui lo stesso autore apparteneva. Eppure questo non
si può definire come un libro esclusivamente
di guerra. Vi è raccontato l’uomo che
in una situazione limite, come la guerra di trincea,
mostra tutti i lati negativi e i suoi contrari, portati
all’ennesima potenza, da una quasi stupida crudeltà
a mirabili slanci di generosità e altruismo.
Il tutto sotto la scure di un destino che appare,
pagina dopo pagina, non glorioso ma ogni volta sempre
più ingiusto, perché procurato da militari
imbelli e politici opportunisti (per citarne solo
due, D’Annunzio e Mussolini). Numerose sono
le immagini che si fissano nella mente del lettore.
Personalmente mi ha sconvolto quella relativa a un
attacco nemico. Lussu racconta che durante un assalto,
prima di focalizzare la vista dei singoli soldati,
si percepiva già il puzzo di cognac che gli
austriaci emanavano e che ammorbava l’aria tutt’intorno.
E questa può essere la metafora emblematica
della prima grande guerra: il cognac. Liquore che
veniva versato in grandi quantità ai fanti
italiani e austriaci tutte le volte che si doveva
andare all’assalto all’arma bianca e che
nella gran parte dei casi significava il viatico a
miglior vita. Metafora dunque si diceva: per fare
la guerra bisogna essere ubriachi… Dello stesso
tenore è Niente di nuovo sul fronte occidentale
(Im Westen nichts Neues). Nel libro di Erich Maria
Remarque si narrano le vicende relative al fronte
franco-tedesco. Come scrive l’autore, il suo
libro non vuole essere un atto di denuncia ma solo
“il tentativo di raffigurare una generazione
la quale – anche se sfuggì alle granate
– venne distrutta dalla guerra”. Scritto
anch’esso con tratti di mirabile poesia, Remarque
incarna l’uomo che, uscito indenne fisicamente
dalla guerra, fino al 1927 non riesce a scrivere una
riga perché ancora schiantato dagli orrori
che non abbandoneranno mai la sua mente. Con l’avvento
del nazismo in Germania nel 1933, il libro di Remarque
viene pubblicamente bruciato come esempio di scrittura
degenerata.
Prologo di ciò che accadrà nel 1938
quando allo stesso autore i nazisti toglieranno la
cittadinanza tedesca. Nel libro di Remarque l’uomo
si riconosce sempre come tale, mai viene trasfigurato
in un eroe che si fonde con l’acciaio della
modernità e si immortala nell’azione
di guerra esteticamente bella, rischiosa e fine a
se stessa, come accadrà nel libro di Junger.
Ne è una prova il racconto dell’episodio
in cui l’autore si ritrova sperduto tra le linee
nemiche in una enorme buca di granata con i francesi
che corrono all’assalto sopra di lui. Appena
sente un tonfo e il rotolare di un corpo egli si avventa
come una belva sul malcapitato affondando i colpi
con la baionetta secondo la ferrea regola della guerra
o lui o io. Il francese non muore subito ma comincia
a rantolare e lo farà per tutta la notte e
il giorno seguente con Remarque che rischia di impazzire
nella buca insieme e di fronte al lento disvelarsi
del nemico in un essere umano. Alla fine non resisterà
all’idea di scoprire l’identità
di quell’uomo e assieme all’identificazione
attraverso un nome e un cognome troverà lettere,
foto e l’assurda insensatezza di quel mattatoio.
Questo è forse il momento più alto,
quasi lirico, di un romanzo che quando uscì
sconvolse l’Europa e che ancora oggi lascia
al lettore il sapore amaro di quella tragedia che
diede inizio al secolo breve di Hobsbawniana memoria.
Tutt’altro destino nella Germania hitleriana
ebbe il libro di Ernst Junger Nelle tempeste d’acciaio
(In Stahlgewittern).
Come viene scritto nell’introduzione, il suo
comportamento in prima linea lo rese leggendario.
Venne ferito ben quattordici volte e ricevette i più
alti riconoscimenti. Esponente della destra reazionaria
weimariana, Junger tentò di conciliare nei
suoi numerosi e successivi scritti la politica della
destra, tradizionalmente antimodernista, con la progressiva,
inarrestabile ed estraniante espansione della tecnica.
Nelle tempeste d’acciaio è un libro che
non si può definire militarista, ma che certamente
esalta la guerra di trincea come virtù purificatrice
e glorificatrice di una vita profondamente comunitaria,
quasi tribale. La vita dell’uomo in guerra è
per Junger sempre spettacolare e si risolve in ogni
azione, sia essa anche sanguinosa, come puro atto
estetico. Sembra quasi incredibile osservare come
la tradizione conservatrice tedesca, che vedeva nell'affermazione
della tecnica un nemico da contrastare tanto quanto
il propagarsi delle idee comuniste, trovi invece in
Junger un ribaltamento teorico. La tecnica si fonde
in unico corpo fatto di volontà e violenza,
"la poesia dell'acciaio" come l'autore la
definisce. Il mondo borghese è per Junger ormai
corrotto, atomistico, generatore di sentimenti individualistici
e troppo vincolato alla prassi dettata esclusivamente
dalla ragione che allontana e distrugge quella dimensione
romantica e quello spirito guerriero che la tradizione
germanica da secoli immutabilmente incarnava. Solo
con la tecnica la bellezza pare allo scrittore tedesco
riconciliarsi con il mondo grazie alla sua fascinosa
precisione e alla "meravigliosa" potenza
distruttiva e salvifica che da essa si dipana. Per
questo ho voluto associare a due libri per così
dire pacifisti, che prendono in odio la guerra, un
libro – quello di Junger – che invece
trae dall’esperienza bellica una filosofia di
vita e di organizzazione sociale profondamente antitetica
e decisamente reazionaria. Solo così sarà
più chiaro al lettore comprendere i meccanismi
psicologici e l’evolversi delle tensioni sociali
e culturali che portarono sia in Italia che in Germania
all’affermazione di quei fenomeni politici che
vanno sotto il nome di “fascismi”.
Fabrizio Simoncini
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