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Filosofia
15.09.07
Diario del Festivalfilosofia 2007 sul "Sapere”
di GIORGIO MORGIONE
Appunti liberi di Lezioni Magistrali - Parte Prima -
Anthony Appiah: Che cos’è l’Occidente
- Carpi, piazzale Re Astolfo, Sabato 15 Settembre 2007.
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L’antropologia di Anthony Appiah può essere
considerata una sfida rivolta alle forze che lacerano
la società contemporanea, che sono alla base
dei grandi conflitti culturali e religiosi. Queste lacerazioni
sono il prodotto di filosofie che in un modo o nell’altro,
a partire dalla fine dell’Illuminismo, hanno contribuito
a ricostituire un pensiero dell’esclusione e della
diversità. Contro queste tendenze l’obiettivo
di fondo del pensatore di origine ghanese è un
recupero ed un’attualizzazione del concetto di
cosmopolitismo. Lo stoicismo antico, ma anche lo stoicismo
romano, specie in Epitteto e Marco Aurelio, ha inaugurato
il concetto di cosmopolitismo secondo il quale ognuno,
anche colui che non appartiene alla poliV, non è
più uno straniero oppure uno schiavo, bensì
un cittadino del mondo come ogni altro, che vive secondo
un principio razionale universale ed eterno (logoV).
La proposta di riscatto dall’odierno conflitto
di civiltà di Appiah parte da un principio molto
affine al caposaldo della Stoà, per giungere
a definire un ideale di cosmopolitismo contemporaneo.
Dalle origini del cosmopolitismo fino alla dichiarazione
dei diritti fondamentali dell’uomo, in seno al
pensiero occidentale è esistito il desiderio
di realizzare una societas hominum et communitas. Con
il tramonto dell’Illuminismo le tracce di questo
ideale si fanno sempre più rade, fino quasi a
scomparire, mentre si affermano nuove correnti di pensiero
che alimentano le fiamme irrazionali dei popoli, la
mistificazione dell’alterità, il bisogno
e il timore della sopraffazione, come ha fatto, per
esempio, un certo Romanticismo. Accade il più
delle volte che le concretazioni di tali correnti finiscano
per trasformarsi in ciò che Appiah definisce
“esagerazioni”. Un’esagerazione è
una visione distorta della natura umana generatasi per
via di errate interpretazioni della storia, dell’origine
delle culture e della costituzione delle nazioni. Si
tratta di espressioni del pensiero umano che non solo
contribuiscono a generale l’idea che una cultura
possa identificarsi con un determinato territorio, un
determinato linguaggio, una determinata forma di governo,
ma -e in totale controtendenza rispetto agli sviluppi
più recenti della storia- non riconoscono un’esistenza
di fatto all’ibridizzazione e al multiculturalismo.
L’ideale di una cultura isolata e pura può
essere paragonata alla figura leggendaria della pepita
d’oro. Appiah accusa la modernità di aver
isolato le culture e affermato differenze illusorie,
una patologia della storia umana che non si ravvisa
soltanto in quello che egli definisce pensiero euro-vetero-centrista,
ma anche nei suoi contraltari più giovani dell’americanismo
e dell’afrocentrismo. Tutti i tentativi di affermare
l’identità pura di una cultura, non soltanto
vanno combattuti perché privi di qualunque oggettività,
ma anche e soprattutto perché incapaci di rispondere
agli interrogativi del fenomeno globale. Nel mondo contemporaneo,
dove il transito e l’interlocuzione degli individui
raggiungono una complessità mai avuta prima,
non è più possibile parlare di cultura
utilizzando categorie protoantropologiche, come ad esempio
quelle che usò Tylor per rispondere alla domanda
“che cos’è la cultura?”. Ancor
meno adeguata è l’idea di cultura di Herder,
ampiamente diffusasi fino alla metà del secolo
scorso e confluita tra gli elementi costitutivi di modelli
totalitari.
Talune esagerazioni, dice Appiah, dimostrano che non
si è ancora completamente superato il modello
della pace di Westfalia, che ha contribuito a fondare
l’assetto dello Stato moderno. Mai come nel tempo
in cui viviamo la nazione non può identificarsi
con lo Stato. La vita delle comunità deve cominciare
ad essere progettata nella sfera vitale degli individui
e non più soltanto nei palazzi o dai filosofi.
Il nazionalismo ha reso cieco l’Occidente moderno
di fronte ad uno sviluppo della cultura in chiave ultranazionale.
I residui di tale cecità sono ancora presenti
in civiltà avanzate come le nostre: la Francia,
gli Stati Uniti… La stessa Italia. In Italia per
esempio il multilinguismo si riconosce soltanto in parte
e in modo improprio. Si dice che l’Italia è
un paese bilingue perché oltre all’italiano
ci sono i dialetti e intanto si ignorano diverse minoranze
linguistiche che esistono nel Bel Paese da tempo, come
l’occitano, l’albanese, il somalo, l’arabo
e altre ancora. Questi residui di cecità non
fanno altro che accrescere la tendenza dei popoli a
non riconoscere che di fatto sono già identità
multiculturali. Essi accumulano sempre più saperi,
ma nello stesso tempo dimenticano molto di ciò
che appartiene al loro passato più proprio: la
vicenda che ha fatto di ciò che affermano essere
(ognuno un determinato popolo) quella comunità
che oggi rappresentano.
Lo scrittore e storico francese Joseph-Ernest Renan,
nella sua opera Qu'est-ce qu'une nation? rispose alla
domanda del titolo dicendo che una nazione è
una realtà complessa, fatta di storie, tradizioni,
esercizi di potere, atti di resistenza e di mescolanze
etniche. In una parola essa è una «realtà
empirica». Ma l’errore di Renan fu di aver
creduto che sono i valori del passato che le storie
contengono a fare una nazione e non il fatto stesso
che i suoi attori siano capaci di raccontarle, di rapresentarle
attraverso l’arte, la scrittura, la musica, lo
sport, oppure il viaggio. Sono questi i canali espressivi
del cosmopolitismo culturale, gli stessi che rendono
possibile un superamento del concetto moderno di nazione.
Renan, quindi, è affetto da cattivo Romanticismo
e per questo motivo egli interpreta il concetto di nazione
esagerandolo, come hanno fatto l’Idealismo, l’Organicismo,
e il Determinismo. Alle esagerazioni della modernità
deve essere sostituito un cosmopolitismo culturale la
cui universalità si esprime nelle forme condivise
della creatività umana. Otto Wagner pensò
al Gesamtkunstwerk come ad un’opera d’arte
che fosse allo stesso tempo un’essenza unificatrice
dell’arte in senso lato. Ma si trattava ugualmente
dell’arte concepita come il prodotto di determinati
popoli, ossia identità fondate sui valori tradizionali
di cui si è detto, e per questo anche il Gesamtkunstwerk,
seppure per un margine molto sottile, ricade nella cerchia
delle esagerazioni dell’Occidente moderno.
Se possiamo dirci in cammino verso un cosmopolitismo
contemporaneo, allora le categorie dell’Occidente
moderno non possono più rappresentare la bussola
con cui orientare i nostri parametri di giudizio (pensiamo
a quando parliamo di Islam radicale, America settentrionale,
popoli del terzo mondo che migrano da quadranti depressi
ecc.). Essere cittadini del mondo non deve tuttavia
significare omologazione della cultura ed ignoranza
della diversità, poiché la diversità
si identifica qui con l’altro, o meglio con l’umanamente
altro, e l’umanamente altro è qualcosa
che dobbiamo distinguere dall’estraneo. Il cosmopolitismo
di Appiah è in fondo proprio questo: una convivenza
dell’altro con l’altro, in un mondo senza
estranei. I fondamenti del pensiero occidentale moderno
sono quindi ciò che contraddice il cosmopolitismo
contemporaneo, sono un controcosmopolitismo. In nessun
luogo è una cultura che può dirsi pura
e il controcosmopolitismo, dice Appiah, cerca una purezza
immaginaria che non c’è.
...
Kwame Anthony Appiah (Londra, 1954). Filosofo e
antropologo di origine ghanese. Lawrence S. Rockefeller
Professor e membro del Center for Human Values presso
la Princeton University, si è occupato a fondo
della storia del colonialismo, del multiculturalismo
e della cultura africana. Tra le sue opere: In My Father’s
House. Africa in the Philosophy of Culture (1992); Color
Conscious. The Political Morality of Race (1996); The
Ethics of Identity (2004); Cosmopolitanism. Ethics in
a World of Strangers (2006). |
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