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Filosofia
03.11.07
Diario del Festivalfilosofia 2007 sul "Sapere"
di GIORGIO MORGIONE
Appunti liberi di Lezioni Magistrali - Parte Terza.
Umberto Galimberti: Dal sapere simbolico al sapere tecnologico.
Carpi, piazza Garibaldi, Sabato 15 Settembre 2007
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Il giuoco dei poli entro il quale si consuma l’esistenza
dell’essere umano, l’esistenza dell’essere
pensante, è quello tra l’universo simbolico
e il sapere tecnologico, oppure, in altri termini, tra
l’enigma e la razionalità strumentale.
Alla base di tutto questo è la scissione tra
anima e corpo, scissione che ha inaugurato la scienza
moderna e che oggi, nel trionfo della tecnica, è
giunta al suo parossismo.
Ma incominciamo da una domanda che si pone a monte:
il sapere è davvero una ricerca della verità?
La risposta, afferma Galimberti, è no. Prendendo
spunto dalla dottrina della genealogia nicciana, secondo
la quale non dobbiamo domandarci l’essere dell’oggetto,
quanto da dove esso venga, Galimberti considera il sapere
piuttosto come un’istituzione umana preposta alla
previsione dell’imprevedibile: esso è stato
fondato unicamente per contenere l’angoscia degli
uomini, la paura dell’imprevisto. L’uomo
vive se prevede. Sapere è dunque tentativo di
superamento della paura. I bambini ad esempio, che ignorano
i nessi più semplici delle cose, sono continuamente
in allarme.
Domandiamoci a questo punto cosa sia il simbolo, e domandiamoci
anche quale sia il significato del pensiero simbolico.
Il simbolo (syn, insieme + ballo, getto, pongo, = mettere
insieme) è il risultato del processo attraverso
il quale l’oggetto riceve un portato della psicologia
del soggetto. Ad un primo esame un tale processo non
può far altro che accrescere la distanza cognitiva
tra il soggetto e l’oggetto. Il primo ad aver
avuto questo sospetto è stato Platone, il quale
ci dice che se vogliamo istituire un linguaggio universale,
dobbiamo anzitutto scardinare il simbolo. Per cercare
l’oggetto così come è e non sottoforma
di un dio, di un’emozione o altro, è necessario
liberarsi dai gangli del pensiero simbolico, ovvero
imparare a conoscere l’oggetto secondo il principio
di non contraddizione, il principio di identità,
ed espungendo il dato psicologico e corporale che insidia
continuamente il processo di costruzione del linguaggio.
Ecco perché Platone afferma che i poeti rappresentano
un male per la comunità. Il corpo non informa
bene, il corpo inganna. Sarebbe necessario istituire
un sapere fatto soltanto di numeri ed idee, scacciando
il corpo e le emozioni. Tale vuole essere il linguaggio
filosofico, fatto di razionalità ed astrazione,
tale è il linguaggio col quale io posso dire
che questa sedia è quel che è, in ogni
luogo e in ogni tempo. Questo è l’Occidente,
la cui storia può riassumersi nella lunga istituzione
di un sapere fondato sulla scissione dell’oggetto
dal soggetto, attraverso il numero, le idee, la negazione,
dati con i quali l’Occidente costruisce la struttura
del discorso.
Il primo importante traguardo di questa storia è
il linguaggio scientifico. L’uomo è qui
un giudice che ha come imputato la natura. L’uomo
decide cosa la natura sia e come vada trattata: Heidegger
coglie pienamente il senso di questo dato, quando dice
che il mondo si organizza mediante l’esigenza
umana, quindi un fiume è una risorsa di energia
elettrica, il suolo è sottosuolo, il lago una
riserva idrica ecc.
Il secondo traguardo della storia dell’Occidente
è il linguaggio tecnologico. Qui occorre domandarsi
cosa sia la tecnica. Essa è una realtà
complessa, che possiamo definire come l’insieme
degli strumenti, come la forma più alta di razionalità
che l’uomo abbia mai raggiunto, nella quale non
esiste spreco, non esiste sovrabbondanza, c’è
perfetta armonia tra mezzo e scopo, essenzializzazione
radicale della vita, ancor più di quanto accade
nell’economia, perché il modello di riferimento
della tecnica è la macchina. L’uomo di
fronte alla macchina è un essere profondamente
diverso, ed è così che egli, per vivere
in armonia con la tecnica, deve adeguarsi ad essa, fino
a divenire non più l’heideggeriano “pastore
dell’essere”, bensì, come direbbe
Günter Anders, “il pastore delle macchine”.
L’uomo cerca la propria identità nel riconoscimento
in un proprio apparato di appartenenza, anzi, si può
arrivare a dire che la sua identità è
oramai interamente delegata all’apparato. La tecnica
essenzializza la vita e la natura, si contrappone a
tutto ciò che è incomprensibilmente sovrabbondante,
generoso, come è sovrabbondante e generoso il
linguaggio di due innamorati. La vita, dunque, è
incomparabile con la tecnica e viceversa.
Qual è la conseguenza di tutto questo? Il dato
più rilevante è che noi perdiamo il contatto
con noi stessi: l’apparato ci conduce allo smarrimento,
perché ha espulso il simbolico, lo psichico,
l’emotivo, ha espulso il mondo della vita. La
tecnica ci allontana dalla conoscenza di sé,
e poiché la natura non istintuale dell’uomo
lo obbliga a prendersi cura di sé, la tecnica
ci allontana anche dal prenderci cura di noi stessi.
L’uomo è in grado di prendesi cura di sé
in molti modi diversi. Quella cristiana, per esempio,
è stata ed è ancora una cura largamente
adottata. Essa ha trovato il modo di reperire il senso
della vita per l’uomo nell’idea di un’esistenza
ultraterrena. Così facendo, il Cristianesimo
ha conferito un senso al tempo iscrivendolo in un disegno
escatologico nella cui fine si realizza la salvezza
annunciata all’inizio. Dentro il Cristianesimo
c’è una domanda di senso, ovvero un modo
con cui l’uomo ha voluto prendersi cura di se
stesso. Ma per ogni animo, la cura del Cristianesimo
si traduce in una pratica di buona condotta, la quale
a sua volta si traduce in una morale della repressione,
finché ciò che doveva essere una cura
si tramuta in afflizione. Oggi, continua Galimberti,
non è più la repressione che ci affligge,
ma la mancanza di senso: la tecnica ci priva di senso
e ci precipita nell’angoscia. Ci ostiniamo a cercare
un senso alla nostra vita quando la nostra vita ha il
solo senso di vivere, per finire nel turbine dell’apparato
che ci allontana dalla comprensione di noi stessi.
La vita è una dimensione prerazionale, esattamente
come il simbolo, così se non entriamo nella simbolica
dell’altro non potremo mai intenderci appieno
col prossimo. La ragione dunque, la razionalità,
non è tutto, ma un insieme di regole. La dimensione
della ragione galleggia nell’oceano del simbolico.
I simboli sono potenti e i conflitti del nostro tempo
stanno a dimostrarlo: con le ragioni ci si mette d’accordo,
con i simboli no. La riappropriazione del senso e della
cura di sé dipende così dalla possibilità
di trovare un canale di comprensione tra diversi sul
piano del simbolico. Il dialogo, inteso come un conflitto
simulato tra due ragioni contrapposte (dia-logos, contrapposizione
di logoi) è esattamente ciò che costituisce
questo canale. Il dialogo come recupero di senso e cura
di sé è possibile nella misura in cui
ci riconosciamo come portatori di quella cifra prerazionale
che è il simbolico, attraverso quel che James
Hillman ha definito come un codice archetipico col quale
ci individuiamo e candeziamo la nostra vita.
Umberto Galimberti (Monza, 1942). Filosofo italiano.
Allievo di E. Severino, è attualmente ordinario
di Filosofia della Storia all’Università
Ca’ Foscari di Venezia. Al centro della sua ricerca
è il rapporto tra l’uomo e la tecnica nel
mondo contemporaneo. Tra le sue opere più importanti:
Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'Occidente (1975),
Psichiatria e Fenomenologia (1979), Il corpo (1983),
La terra senza il male. Jung dall'inconscio al simbolo
(1984), Gli equivoci dell’anima (1987) e Psiche
e techne. L'uomo nell'età della tecnica (1999).
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