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Filosofia
18.10.07
Diario del Festivalfilosofia 2007 sul "Sapere”
di GIORGIO MORGIONE
Appunti liberi di Lezioni Magistrali - Parte Seconda
- Stefano Rodotà: Il sapere come bene comune.
Accesso alla conoscenza e logica di mercato. Carpi,
piazza Garibaldi, Sabato 15 Settembre 2007
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Per iniziare una riflessione sul “sapere come
bene comune” possiamo fare un salto indietro di
160 anni, quando Alexis de Tocqueville in un suo scritto
affermava che la lotta politica, presto, sarà
tra chi ha e chi non ha. Tocqueville ha avuto certamente
ragione, ma come dobbiamo coniugare la sua affermazione
nel nostro tempo, quale può essere insomma il
senso di riproporre queste parole oggi? Quella che stiamo
vivendo, dice Rodotà, è una società
della conoscenza. In essa, come un’epidemia, la
questione della proprietà ha raggiunto ogni luogo,
seminandovi il disagio. La proprietà non ha mai
cessato di alimentare quella lotta che Tocqueville aveva
preannunciato. Ma il bene per il quale oggi si lotta
è diverso da quello a cui pensava Tocqueville.
Quello era un bene scarso e quella sua stessa scarsità
era il seme che generava il conflitto. Il bene di cui
parliamo oggi è invece abbondante, addirittura
illimitato, come può essere illimitato il sapere
in internet. Ma allora -ci si domanda- come può
un bene illimitato generare contese? La risposta sta
nel fatto che il sapere di oggi è un bene solo
apparentemente illimitato, mentre di fatto esso accusa
un enorme problema di chiusura. Immaginiamo una immensa
distesa di terra e diciamo che è il sapere. Chi
volesse attraversarla si accorgerebbe subito che non
può farlo per via dei numerosi recinti che la
dividono e ne impediscono uno sguardo d’insieme.
A pensarci, quest’immagine somiglia molto a quella
dei “muretti a secco” che una volta dividevano
le campagne del nostro Meridione. La verità è
che quella del sapere è divenuta una partita
che investe la libertà e i diritti, continua
Rodotà, valori che, anche nell’amplissimo
mondo della rete, sottostanno ad esercizi di chiusura.
Il rapporto tra individuo e cultura, ossia la comunicazione
della cultura, ha subìto profonde trasformazioni
a seguito dell’evoluzione tecnica. Per fare soltanto
due esempi, in campo musicale la scoperta della registrazione
audio ha senz’altro ampliato il nostro spettro
cognitivo, e lo stesso è accaduto nell’uso
del testo con la scoperta della fotocopiatura. Cambia
insomma la natura della conoscenza. Basti pensare ai
motori di ricerca, alle enciclopedie virtuali, ai contenitori
multimediali come You Tube o all’ancora più
recente demiurgo dell’arter ego Second Life. Ognuno
con internet può essere un produttore di sapere
e tutto farebbe pensare che siamo finalmente giunti
nell’era del sapere disponibile e del sapere non
proibito. Certo, l’approssimarsi al sapere è
oggi più rapido, più ricco di stimoli,
ma la pratica della censura esiste ugualmente, anche
se in forme differenti rispetto a ieri. Pensiamo alla
censura del governo cinese sui canali informativi telematici
e al colosso del web Yahoo che ha offerto aiuto allo
stesso governo per individuare e catturare coloro che
immettevano nella rete informazioni “sgradite”.
Vi è dunque un sapere libero e un sapere controllato
e ciò equivale a dire che esiste un sapere di
pochi e un sapere di molti. L’ignoranza in fondo
è sempre stata uno strumento di governo: è
questa una verità che nel tempo ha cambiato la
forma, ma non l’essenza, e la coscienza collettiva
è rimasta per lo più soggiacente a questa
logica, senza accorgersi della sua desolante aberrazione.
In un sonetto di Gioacchino Belli si raccomanda la gioventù
di tenersi alla larga dai libri, perché quel
che è scritto nei libri è il peggior nemico
della comunità. Anche in Lev Tolstoj, ne La sonata
a Kreutzer, troviamo qualcosa di simile, quando ad un
certo punto si afferma che le donne non dovrebbero leggere.
E’ vero, il cattivo esercizio del potere pubblico
è una delle principali cause delle limitazioni
dell’accesso alla conoscenza, ma non si tratta
soltanto di questo, poiché è altrettanto
vero che la possibilità di accedere a maggiori
risorse di sapere dipende dall’acquisizione di
competenze da parte dell’individuo. Detto con
una formula apparentemente paradossale, un certo grado
di conoscenza si acquisisce soltanto se si conosce,
ossia la possibilità di accedere ad una quantità
maggiore di risorse di sapere è direttamentente
proporzionale all’abilità che l’individuo
possiede nel saperne fruire. Se prendiamo l’esempio
di internet la formula si fa più chiara. Quando
chiediamo informazioni ad un motore di ricerca, questo
in pochi millesimi di secondi è in grado di fornirci
centinaia di migliaia di canali informativi. Se, dal
nostro canto, siamo in grado di selezionare le informazioni
più veritiere, ciò è dovuto unicamente
alle nostre conoscenze pregresse. Eppure tutta l’enorme
quantità di sapere falso o manipolato che circola
nella rete raggiunge molti di noi e li dirotta dove
è suo desiderio. E questo dirottare la nostra
attenzione su un sapere “di serie B” come
potrebbe essere definito? Non è forse anch’esso
una forma di limitazione dell’accesso al sapere?
Noi potremmo andare a cercare tutte le informazioni
che vogliamo, ma qualcuno cerca di deviare le nostre
traiettorie, di intervenire sulle nostre decisioni.
Quel che in tutto questo manca è il più
elementare principio di eguaglianza, che può
tradursi nell’insegnamento illuministico a pensare
e vivere il sapere come un bene accessibile a tutti.
In passato vi sono state idee a favore di un uso pubblico
ed illimitato di beni relativi al sapere e al diritto
di cominicare col prossimo. Probabilmente tali idee
dovrebbero essere sottoposte ad un severo scrutinio
sociologico, se volessimo farle valere nel nostro tempo,
ma è certo che in qualche modo potrebbero contribuire
al cambiamento dello stato attuale delle cose. Forse
in un giorno non molto lontano internet diverrà
un canale gratuito per chiunque, ma non è così
che avremo risolto il problema dell’accesso al
sapere, poiché quando avremo libero accesso alla
rete, nella rete avremo ancor meno accesso a tutte le
informazioni. Se volessimo utilizzare una metafora,
allora diremmo che noi tutti, un giorno, riceveremo
la chiave per entrare in una stanza, ma poi, quando
varcheremo la porta, ci accorgeremo che la stanza è
vuota.
Wikipedia, come molti di noi già sanno, è
un’enciclopedia del sapere on-line. Wikipedia
ha scardinato l’idea del grande contenitore d’autore
(come era in origine, nella mente di Diderot e D’Alembert)
trasformandolo in un prodotto del sapere collettivo,
oltre che nel più grande bacino di informazioni
mai esistito. A chi venisse domandato cosa pensa di
Wikipedia, quasi certamente risponderebbe che si tratta
di un canale d’accesso libero al sapere, e forse
aggiungerebbe che è proprio il canale più
libero in assoluto. Ma è venuto fuori che persino
in Wikipedia alcune informazioni sono state modificate
arbitrariamente, e precisamente da qualcuno che ha trovato
nei loro contenuti ostacoli per i suoi affari…
Non è questa una guerra?
Prendiamo la ricerca farmacologia. Si tratta di altro
quadrante del sapere sul quale cade la scure della censura,
e se teniamo conto di quanto detto finora non potrebbe
essere altrimenti. Infatti, cosa sono in ultima analisi
i farmaci se non merce che incorpora sapere, sapere
che, in questo caso, si fa utile per migliorare la salute
della persona (diritto fondamentale dell’individuo)?
Ebbene anche le medicine, dice Rodotà, rappresentano
uno dei campi di battaglia moderni preconizzati da Tocqueville.
Con quale termine possiamo definire, se non con la parola
guerra, il fatto che case farmaceutiche brasiliane,
sudafricane e indiane abbiano cominciato a produrre
medicinali in violazione del brevetto internazionale,
per salvaguardare la sopravvivenza delle loro popolazioni?
La Costituzione italiana, ritenuta una delle migliori
Costituzioni al mondo e per la quale di recente è
sembrato così scontato poterla trattare come
un vecchio trabiccolo da rottamare, preserva ancora
principi di straordinaria saggezza politica. Uno di
questi è l’articolo 3, nel cui secondo
comma si afferma l’obbligo della Repubblica di
rimuovere ogni ostacolo che impedisca la libera formazione
della personalità. Qui si ricollega precisamente
il problema dell’accesso al sapere, in quanto
in esso è in gioco non soltanto l’eguaglianza
delle opportunità, ma anche l’eguaglianza
dei risultati. Per usare un’immagine che appartinene
al nostro passato, possiamo dire che vietare l’accesso
al sapere non è molto diverso dal reintrodurre
la cittadinanza censitaria (da cènsus, censère,
dove il valore del cittadino era stabilito dalla valutazione
dei suoi beni).
Dal quadro descritto fin qui i tempi per una riconquista
della libertà d’accesso al sapere –ammesso
che sia mai esistita per davvero- sembrerebbero già
maturi. Un primo strumento di contrasto andrebbe cercato
nella formazione di un pensiero critico liberale (libero
nel senso di non essere espressione d’intelligenze
schierate) con cui iniziare a renderci consapevoli che
la limitazione dell’accesso al sapere non è
più rappresentata da strumenti tradizionali quali
i diritti d’autore e di brevetto (la fatturazione
dei servizi non può più funzionare). Negli
ultimi tempi, specie negli Stati Uniti, si sta diffondendo
una pratica nuova nella diffusione del sapere. Prendiamo
ad esempio l’editoria: qualcuno scrive un libro
e dà a tutti l’opportunità di scaricarlo
dalla rete. Così egli diventa famoso e comincia
ad essere invitato ad incontri, presentazioni e conferenze,
col risultato di guadagnare -certo anche in termini
di denaro- molto più di quanto avrebbe potuto
se avesse protetto l’opera con i tradizionali
diritti d’autore. Si tratta di un meccanismo che
in certi paesi come gli Stati Uniti permette ad un oratore
noto di guadagnare per una conferenza diverse migliaia
di dollari. Questo dimostra come le vecchie regole di
divieto d’accesso al sapere possono essere sconfitte
dalla stessa economia, la quale, accortasi di non poterle
più ingaggiare come strumento di profitto, le
ha progressivamente abbandonate. Ecco allora che la
Ricchezza delle nazioni di Smith si trasforma in una
“Ricchezza della rete”, prodotta non più
soltanto mentendo in pratica le vecchie logiche dell’economia.
Certo, la realtà nel suo complesso ci dimostra
che gli interessi del capitale contemporaneo hanno soltanto
un abito diverso e che nella loro essenza non sono cambiati
rispetto a quelli che innervano il capitale visto da
Smith duecento e più anni or sono. Eppure la
società della conoscenza, continua Rodotà,
è qualcosa di più di questo. Essa è
certamente un insieme di individui le cui scelte il
capitale cerca di orientare, ma è al contempo
una comunità che può istruirsi all’uso
del sapere, che può aprire gli accessi alla conoscenza
che qualcuno oggi vuole mantenere chiusi, che può
sottrarsi all’esercizio dis-umano del potere e
delle moderne logiche di profitto. Tutto questo può
avvenire se si coltiva una responsabilità politica
del sapere e se si pongono le basi per garantire un
sapere sociale, un sapere dell’altro. E’
qui che troviamo un secondo strumento di contrasto,
precisamente nel sostegno allo sviluppo della scuola
pubblica, cioè all’istituzione maggiormente
deputata alla formazione del sapere sociale. E’
infatti nella scuola pubblica che posso incontrare il
“diverso”: il diverso nella condizione economica,
il diverso nella cultura di origine, il diverso nel
riferimento ad un’area politica, ecc. Partire
dalla scuola pubblica può essere l’inizio
di una riaffermazione dei luoghi del sapere sociale
contro le forze che intendono limitarne l’accesso,
i luoghi a partire dai quali ognuno può esporsi
liberamente al gigantesco flusso della conoscenza e
dell’informazione.
...
Stefano Rodotà (Cosenza 1933). Giurista e
politologo italiano. Professore di Diritto civile e
direttore del Master di secondo livello in “Diritti
della persona e nuove tecnologie” presso l’Università
La Sapienza di Roma. Deputato nelle legislature dal
1979 al 1992, durante le quali è stato membro
delle Commissioni Affari Costituzionali, Affari della
Presidenza del Consiglio, Affari Interni e della Commissione
bicamerale. Tra il 1997 e il 2005 è stato Presidente
dell'”Autorità garante per la protezione
dei dati personali” e del “Gruppo di coordinamento
dei Garanti per il diritto alla riservatezza”
dell'Unione Europea. Si è ampiamente occupato
del rapporto tra giurisprudenza e nuove tecnologie.
Tra le sue opere: Tecnologie e diritti (1995); Repertorio
di fine secolo (1999); La vita e le regole. Tra diritto
e non diritto (2006); Ideologie e tecniche della riforma
del diritto civile (2007). |
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