10.11.06
Breve storia del debito Pubblico italiano
di ANDREA MANGANARO
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L’approvazione dell’ultima
manovra finanziaria è stata caratterizzata,
come noto, da un lungo ed a tratti logorante dibattito,
sia all’interno della maggioranza di governo,
sia tra l’opinione pubblica. Uno dei punti centrali
della discussione ha riguardato la seguente questione:
è stato utile e necessario predisporre questa
imponente manovra finanziaria (quasi 40 miliardi di
Euro, alla fine) per far rientrare al di sotto della
sospirata soglia del 3% il rapporto tra deficit e
PIL entro il 2007 (così come aveva concordato
il precedente governo Berlusconi con la Commissione
Europea a fine 2005), oppure sarebbe stato meglio
adottare una manovra più leggera, diluendo
il rientro del deficit in almeno due anni, al fine
di destinare così maggiori risorse al welfare
ed allo sviluppo?
Per rispondere con cognizione di causa a questa domanda
è opportuno ripercorrere brevemente sia la
genesi del Trattato di Maastricht e del Patto di stabilità
che impongono, tra le altre cose, i noti parametri
di convergenza sui rapporti tra deficit e PIL (che
deve essere al di sotto del 3%), e tra debito e PIL
(che deve essere inferiore al 60%), e sia la genesi
dell’ingente debito pubblico italiano accumulato
negli ultimi trent’anni. Se per un verso, infatti,
il percorso di convergenza verso l’Unione Monetaria
intrapreso dall’Italia nel ’92 ha rappresentato
un’importante fonte di legittimazione per il
risanamento finanziario operato dai governi della
cosiddetta “Seconda Repubblica”, dall’altro
va ricordato che oggi il debito pubblico italiano
è stabilizzato, mentre l’Unione Monetaria
costituisce un contesto economico-finanziario assolutamente
stabile. Appare necessario, pertanto, rivedere gli
arbitrari vincoli posti dal Patto di stabilità
per permettere ai governi nazionali, compreso quello
italiano, di destinare maggiori risorse alla crescita
ed allo sviluppo economico. Origini e motivazioni
politiche del Trattato di Maastricht e del Patto di
stabilità Il “Patto di Stabilità
e Crescita” (un ossimoro che è già
tutto un programma, tant’è che normalmente
viene nominato soltanto col primo dei due sostantivi…),
detto anche “Trattato di Amsterdam”, fu
sottoscritto nel ’97 al fine di evitare un precoce
fallimento del percorso d’integrazione monetaria
intrapreso nel ’92 con la sottoscrizione del
Trattato di Maastricht. Preso atto, infatti, che alla
fine del ’95 l’unico Stato in grado di
rispettare i parametri di convergenza previsti nel
Trattato di Maastricht era il Lussemburgo, si ritenne
necessario rinegoziare le condizioni di accesso degli
Stati membri alla terza fase, e quindi all’Unione
Monetaria Europea (UME). Così come avvenne
alcuni anni prima a Maastricht, le posizioni politiche
che caratterizzarono il dibattito tra gli Stati membri
ad Amsterdam furono sostanzialmente due: la prima,
quella sostenuta soprattutto dalla Germania (ed in
special modo dalla sua Banca Centrale più che
dal suo governo), prevedeva che i parametri non dovessero
essere rinegoziati, e che dovessero essere interpretati
in modo rigido, al fine dell’ammissione dei
Paesi all’UME, anche a costo di non far partire
l’integrazione monetaria, oppure di creare un’Unione
Monetaria ristretta a pochi Paesi. La seconda posizione,
sostenuta soprattutto dalla Francia e dai Paesi mediterranei,
prevedeva, invece, che per l’ammissione all’UME
tali parametri di convergenza dovessero essere interpretati
in modo flessibile, anche attraverso un giudizio politico
sullo “sforzo” e sulla “buona volontà”
dimostrati dagli Stati membri. È evidente che
i sostenitori di questa seconda opzione volessero
un’UME quanto più larga possibile, ed
un intervento politico coordinato da parte delle Istituzioni
Comunitarie, sia per agevolare la convergenza delle
politiche di bilancio degli Stati membri, sia per
compartecipare, congiuntamente all’organo tecnico
(la BCE), al governo della moneta unica. È
altrettanto evidente, invece, che i sostenitori della
prima opzione, specialmente la Bundesbank e buona
parte dell’opinione pubblica tedesca, temessero
l’ingresso dei Paesi mediterranei nell’UME,
e pretendevano che l’interpretazione dei parametri
fosse così rigida da arrivare al punto di pregiudicare,
se necessario, l’intero progetto d’integrazione.
Essi temevano, infatti, che tali Paesi, ritenuti “fisiologicamente
lassisti”, e offensivamente denominati “PIGS”
(ovvero “maiali”, ma anche acronimo di
Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), avrebbero provocato
nell’UME forti tensioni inflattive, i cui costi
sarebbero stati scaricati sui Paesi “virtuosi”,
al punto da pregiudicare la stabilità stessa
della moneta unica. Una posizione intermedia, caldeggiata
dal cancelliere tedesco Kohl che, a differenza dei
suoi connazionali tecnocrati, era fortemente determinato
nella realizzazione dell’UME, prevedeva inizialmente
la realizzazione di una “mini-unione”,
ribattezzata gergalmente “Framania” e
comprendente soltanto i Paesi “virtuosi”
(ovvero Francia, Germania, ed i loro “Paesi-satellite”),
in cui gli altri Paesi sarebbero potuti entrati in
un secondo momento, dopo “aver messo in ordine
le proprie finanze pubbliche”. Tale proposta
fu destinata a cadere rapidamente, sia perché
politicamente inaccettabile per i Paesi esclusi, e
sia perché, soprattutto, alcuni di essi (in
particolare Spagna e Portogallo) dal ’96 in
poi si allinearono rapidamente ai valori previsti
dai parametri di Maastricht. Con il “Patto di
Stabilità” gli Stati membri raggiunsero
un compromesso molto favorevole per i “rigoristi”:
in realtà, essi dovettero concedere la fissazione
di una data certa per l’avvio della terza fase
del progetto d’integrazione previsto a Maastricht
(quella in cui sarebbero state definite le parità
di cambio irreversibili tra le valute europee, ed
in cui avrebbero preso vita la moneta unica e la Banca
Centrale Europea (BCE)), che fu il 1° gennaio
1999; e dovettero concedere, inoltre, che l’accesso
all’UME non fosse preventivamente negato ad
alcuno Stato membro. In cambio, però, essi
ottennero un forte irrigidimento del parametro riferito
al rapporto tra deficit e PIL. Per rendere possibile
l’accesso all’UME a tutti i Paesi, infatti,
si dovette rendere più elastico il parametro
relativo al rapporto tra debito e PIL, poiché
in caso d’interpretazione restrittiva molti
Paesi, tra cui Italia, Belgio e Grecia, ma anche Spagna,
Irlanda, Austria e persino gli stessi Paesi Bassi,
ritenuti tra i Paesi modello della stabilità
monetaria, ed in cui, non a caso, sono stati sottoscritti
questi Trattati, sarebbero stati estromessi dall’Unione
Monetaria: la riduzione del debito, infatti, è
obiettivo realizzabile soltanto nel lungo periodo.
In cambio di queste concessioni, però, fu stabilito
che, qualora il debito pubblico di uno Stato membro
dovesse essere superiore al 60% del suo PIL, esso
debba “diminuire sufficientemente fino al valore
di riferimento, ad un tasso soddisfacente” (Art.104C).
Per rendere vincolante questa prescrizione, e non
una mera dichiarazione d’intenti, i “rigoristi”
ottennero dal Patto l’imposizione ai Paesi membri
di perseguire il pareggio di bilancio, eliminando,
quindi, la possibilità di poter registrare
un deficit, ancorché contenuto entro il 3%
del PIL, così come si era inizialmente stabilito
a Maastricht. In deroga a ciò, il Patto ha
previsto comunque un margine di tolleranza fino al
3%, a condizione però di recuperare tale deficit
negli anni di congiuntura positiva. In ogni caso,
questo parametro non doveva e non dovrà mai
superare il 3% del PIL, pena una pesante sanzione
pari allo 0,2% del PIL. Se poi questo parametro dovesse
superare il 4%, allora la sanzione aumenterebbe fino
allo 0,5% del PIL! Paradossalmente, quindi, un Paese
che ha già grosse difficoltà a contenere
il proprio deficit verrebbe ulteriormente penalizzato
con multe di ingente entità (fino a mezzo punto
di PIL!). Difetti del Patto di Stabilità I
vincoli imposti dal Patto di stabilità hanno
il fondamentale difetto di agire, in caso di congiuntura
negativa, in misura fortemente prociclica. Si noti,
infatti, che un compromesso tra il mantenimento delle
finanze pubbliche in equilibrio e la possibilità
di adottare una politica anticiclica, è previsto
perfino nell’austera Grundgesetz, la Legge Fondamentale
Tedesca. Questo compromesso consiste in una “regola
aurea” che prescrive il perseguimento del pareggio
di bilancio, escludendo però dalle spese il
conteggio degli investimenti: ovvero deve essere E>U-I,
ossia E+I>U, dove E sono le entrate pubbliche totali,
U è la spesa pubblica, e I è la spesa
pubblica per investimenti. Questa regola non è
molto diversa dal parametro sul deficit fissato dal
Trattato di Maastricht, poiché la spesa per
investimenti (I) è normalmente attorno al 3%
del PIL. Ma c’è una differenza fondamentale:
nel caso della regola aurea tedesca, infatti, se vi
è una stagnazione economica il governo può
aumentare a piacere la spesa per investimenti, in
funzione anticiclica, fermo restando la parità
delle spese correnti con il totale delle entrate.
Nel caso, invece, del Trattato di Maastricht, se interviene
una fase di stagnazione il governo non può
aumentare a piacere gli investimenti, pur avendo temporaneamente
a disposizione un margine del 3% di PIL, se non riducendo
la spesa di parte corrente o aumentando le entrate.
Si ricorda, peraltro, che il Patto di stabilità
prevede che questo margine del 3% sia da considerarsi
come “eccezionale”, e che normalmente
i governi debbano perseguire il pareggio di bilancio,
per di più senza escludere gli investimenti,
come prevede invece la regola aurea. Inoltre, come
ci ricorda Bruno Jossa, per evitare il rischio di
incappare nelle famigerate sanzioni, i governi devono
necessariamente perseguire l’obiettivo di mantenere
il proprio deficit al di sotto dell’1% del PIL,
poiché “l’esperienza mostra che
le deviazioni standard tra deficit congiunturali e
deficit strutturali sono di circa il 2%, sicché
è possibile che un Paese che parta con un deficit
dell’1% si trovi ad avere un deficit del 3%
a seguito di una serie di shock negativi”. Il
Patto di Stabilità prevederebbe, peraltro,
l’esenzione automatica dalle sanzioni per i
Paesi trasgressori, qualora il PIL diminuisca di almeno
il 2% per quattro trimestri consecutivi, una condizione
che nella storia europea degli ultimi 150 anni si
è verificata in pochissimi casi. Qualora, invece,
il PIL dovesse subire una riduzione di almeno il 2%
per tre trimestri consecutivi, l’esenzione dovrebbe
essere subordinata ad un voto del Consiglio Europeo.
In realtà, nel caso della prolungata stagnazione
(ma non recessione!) che ha colpito l’Europa
nei primi anni duemila, il Consiglio Europeo è
intervenuto, nel 2003, per impedire che tali sanzioni
fossero comminate ai Paesi più grandi dell’UE
che avevano violato il Patto: Germania e Francia!
L’anno prima, invece, a Portogallo e Grecia
furono comminate tali sanzioni. Anche nella UE, alcuni
Paesi sono più uguali degli altri… Motivazioni
economiche del Trattato di Maastricht e del Patto
di stabilità In un processo d’integrazione
monetaria del tutto peculiare, come è quello
europeo, in cui gli Stati aderenti mantengono la sovranità
nazionale in tema di politica di bilancio, il vincolo
relativo alla stabilizzazione dei debiti pubblici
nazionali al di sotto di una certa soglia dovrebbe
avere la primaria finalità di fornire una garanzia
reciproca ai Paesi aderenti che i contraenti siano
reciprocamente solvibili. Questo problema, infatti,
non si porrebbe nell’ipotesi, oggi quanto mai
improbabile, che vi fosse un’autorità
politica centrale (un governo europeo), magari a capo
di una federazione di Stati, responsabile a livello
unitario di un bilancio comunitario di dimensioni
ben più grandi di quello che attualmente gestisce
la Commissione Europea, e dotato anche di una leva
fiscale. In tal caso, infatti, saremmo di fronte ad
una vera e propria integrazione politica, in cui sarebbe
il governo centrale ad avere la principale responsabilità
della gestione del debito pubblico, e non più
gli Stati nazionali. Comunque, anche senza considerare
questa ipotesi piuttosto irreale, già oggi
l’adesione all’UME da parte di un Paese
comporta automaticamente la perdita del controllo
sulla propria Banca Centrale, cosicché non
è più possibile creare inflazione/svalutazione
inattesa, al fine di ridurre (implicitamente) il valore
del proprio debito. Inoltre, aderendo alla moneta
unica, i Paesi non devono più nemmeno far fronte
ai rischi di speculazione sulla proprie valute, cosicché,
anche nel caso di eccessiva emissione di debito, l’esperienza
di questi anni ha dimostrato che i tassi d’interesse
non subiscono alcun rialzo. L’unica motivazione
che rimane, dunque, per giustificare l’imposizione
di una soglia al debito pubblico di uno Stato membro,
è il rischio di insolvenza, che potrebbe verificarsi
nel caso di accumulo eccessivo di debito. Ma anche
questa ipotesi appare piuttosto remota, sia perché
i Paesi membri dell’UME non hanno più
la possibilità di finanziare il disavanzo creando
moneta, e pertanto sussiste già un vincolo
implicito alla creazione di deficit eccessivi, e sia,
soprattutto, perché tali Paesi sono in grado
di controllare un’ampia base imponibile interna.
Inizialmente, cioè a Maastricht, i vincoli
sui conti pubblici furono ispirati alle tipiche argomentazioni
della public choice e della rational choice, secondo
cui i governi nazionali agirebbero tutti in modo fiscalmente
“irresposabile”, sia perché, come
si è già detto, i governi con un debito
troppo elevato potrebbero avere interesse a creare
un’inflazione inattesa, provocando un’erosione
del valore reale delle obbligazioni da loro emesse,
guadagnandoci (a scapito dei detentori dei titoli
di debito pubblico) , sia perché l’obiettivo
di una coalizione di governo, che sarebbe quello di
venire rieletta, è a breve termine (scadenze
elettorali): esse avrebbero, pertanto, interesse ad
aumentare la spesa pubblica (e quindi il deficit ed
il debito) per ridurre la disoccupazione oltre il
suo livello “naturale”, anche se –
si sostiene – per fare questo è necessario
che provochino una spinta inflattiva “a sorpresa”
e, nel lungo termine, operazioni del genere comporterebbero
un aumento d’inflazione, mentre la disoccupazione
tornerebbe a crescere al suo livello “naturale”.
Insomma, secondo queste tipiche argomentazioni fatte
proprie dalle teorie neomonetariste, i governi democraticamente
eletti non sarebbero “fisiologicamente”
in grado di svolgere una buona politica economica,
e per questo “il governo europeo si avvicina,
fino a diventare indistinguibile, a quello di un despota
illuminato, al riparo dalle pressioni popolari, ma
alla ricerca del bene comune attraverso l’applicazione
di una dottrina rigorosa – il liberismo –
superiore a tutte le altre in termini di efficienza
economica”. Per questo stesso motivo, inoltre,
la BCE non può finanziare il debito pubblico
degli Stati membri (la cosiddetta No-Bailout Rule),
e non può nemmeno ricevere istruzioni né
dai governi nazionali, né dalla Commissione
Europea. Così vincolati (e senza tenere conto
del proprio elettorato, che in democrazia dovrebbe
essere il primo dei vincoli che guida l’azione
di un governo), i governi nazionali si trovano costretti,
tra l’incudine della BCE ed il martello dei
vincoli imposti dal Patto di stabilità, a non
poter più scegliere liberamente la loro politica
economica. Dopo l’avvio dell’UME nel ’99,
la scelta di mantenere il vincolo sul debito pubblico,
sulla scorta di quanto si è detto, appare dunque
del tutto eccessiva. Soprattutto, appare del tutto
arbitraria ed ingiustificata la sua definizione numerica
(60% del PIL), così come quella per il deficit
(3%). Questi numeri, infatti, sono stati desunti,
sulla base di ipotesi del tutto arbitrarie, dalla
nota “formula di determinazione del disavanzo
di bilancio necessario per stabilizzare il debito
pubblico: d=gD, dove d è il rapporto tra deficit
e PIL che garantisce, in stato di crescita costante
del PIL al tasso nominale g, che il rapporto tra debito
e PIL si stabilizzi al livello D”. Infatti,
premesso che la stabilità monetaria è
alla base di tutta l’impalcatura del Trattato
di Maastricht, e che tale stabilità è
esplicitata nel Patto di Stabilità in un’inflazione
non superiore al 2%; posto che nel ’91 (anno
della negoziazione del Trattato di Maastricht) il
debito pubblico medio in UE era pari al 60% del PIL;
posto che nella seconda metà degli anni ’80,
la crescita media annua del PIL reale in UE era stata
pari a circa il 3%, e che pertanto la crescita nominale
auspicata dai redattori del Trattato dovesse essere
pari al 5% annuo (cioè 3%+2% di inflazione);
tutto ciò premesso, si ipotizza, in modo del
tutto arbitrario, che queste condizioni possano sussistere
sempre ed ovunque. Pertanto, dall’equazione
suesposta si ricava che la sostenibilità di
un debito pubblico pari al 60% del PIL con una crescita
nominale annua al 5% è garantita da un deficit
pubblico contenuto entro il 3% del PIL (infatti, 0,03
= 0,05 x 0,6). Si può facilmente evincere,
dunque, che la definizione numerica dei vincoli posti
ai deficit ed ai debiti pubblici nazionali sia assolutamente
arbitraria, priva di alcuna base scientifica. Il caso
italiano Per quanto riguarda l’Italia, come
noto, il soddisfacimento dei parametri di convergenza
è stato particolarmente problematico a causa
dell’imponente debito pubblico, che nel ’91
era pari a circa il 100% del PIL, e che tre anni dopo,
nonostante i vincoli posti dal Trattato, toccò
il suo massimo livello a quota 124,8% del PIL. Le
origini di questo debito sono da ricercarsi, brevemente,
nella storia economica italiana a partire dagli anni
’70. Le sfide poste dagli eventi internazionali
di quel decennio all’economia italiana, dalle
crisi petrolifere alla fine del sistema di parità
monetarie denominato dollar standard, dal fallimento
del serpente monetario alla maggiore concorrenza internazionale,
dall’elevata inflazione determinata in parte
dalle dinamiche salariali, ed in parte da politiche
monetarie non restrittive hanno provocato una iniziale
crescita del debito pubblico italiano, dal 37,9% del
PIL del ’70 al 61,7% del ’78. Tale crescita,
tuttavia, è risultata essere piuttosto contenuta,
nonostante l’elevato deficit pubblico, proprio
grazie all’elevata inflazione che erodeva il
valore del debito emesso. Questa situazione ha permesso,
da un lato, di mantenere “a galla” l’economia
italiana, grazie alle svalutazioni competitive della
lira, e dall’altro di finanziare sia un ramificato
ed esteso sistema di corruzione, che alcuni autori
hanno chiamato “keynesismo delinqueziale”,
sia un sistema di welfare di tipo mediterraneo, ovvero
sbilanciato verso la tutela della vecchiaia e dell’invalidità,
a scapito delle altre misure di welfare, e sbilanciato
a favore di alcune categorie professionali forti;
caratteristiche aggravate, peraltro dall’illegalità
e dalla scarsa efficienza. Dalla fine degli anni ’70,
e per tutti gli ’80, si verificò in Italia
una sorta di sdoppiamento delle scelte di politica
economica: da un lato, infatti, vennero adottate scelte
volte chiaramente ad una stabilizzazione monetaria
del Paese (ingresso della lira nello SME, varo della
prima legge di programmazione economica, divorzio
tra Banca d’Italia e governo), ma dall’altro
proseguì senza sosta la crescita della spesa
pubblica, sia per i crescenti interessi sul debito,
sia a causa della corruzione dilagante. La spesa pubblica,
infatti, crebbe dal 41,7% del PIL nell’80 al
57,7% nel ’93. A fronte di questa impennata,
sono cresciute anche le entrate, e con esse la pressione
fiscale, ma non abbastanza, ovviamente, da riuscire
a compensare l’ingente aumento della spesa:
se nell’80, infatti, le entrate totali erano
pari al 34,5% del PIL, nel ’93 queste toccarono
il 47,4%. Negli stessi anni, la pressione fiscale
salì dal 32% al 43,4%. Gli effetti di queste
scelte furono, da un lato, un aumento dei tassi d’interesse,
in termini reali, dal –3,5% del ’79 al
5,1% dell’87, ed una conseguente diminuzione
dell’inflazione, dal 19% dell’81 al 6,5%
dell’89, ma dall’altro un aumento della
disoccupazione, dal 6% di media degli anni ’70
all’11,8% di fine anni ’80, e del debito
pubblico, dal 58,2% del PIL dell’80 al 100,8%
del ’91. Questo tipo di politica economica lassista
è stata possibile anche perché necessaria,
negli equilibri della guerra fredda, a mantenere e
garantire un vasto e ramificato sistema, per lo più
illegale, di produzione del consenso ai partiti di
maggioranza, impedendo così l’accesso
al governo del PCI, nell’ambito di un quadro
politico che è stato brillantemente definito
“bipartitismo imperfetto”. Ciò
che più è interessante, inoltre, è
il fatto che tale situazione ha provocato nel PCI,
a partire dallo “strappo” con l’URSS
e dalla “svolta democratica” operata da
Berlinguer negli anni ‘70, una forte sensibilizzazione
nei confronti del risanamento finanziario, in opposizione
al malcostume ed alla corruzione dei partiti di maggioranza
(la cosiddetta “questione morale”). E
non è un caso, infatti, che alcuni dei provvedimenti
sopra indicati (ingresso della lira nello SME, autonomia
della Banca d’Italia nei confronti del governo
e prima legge finanziaria, la 468/78) furono proprio
adottati, o comunque maturarono, negli anni dei governi
di solidarietà nazionale presieduti da Giulio
Andreotti, con l’appoggio del PCI; così
come non sorprenderà il fatto che il perseguimento
del risanamento finanziario, benché sia sempre
stato uno dei temi classici della scuola liberale
ottocentesca, sia divenuto l’obiettivo strategico,
negli anni ’90, proprio dalla coalizione di
centrosinistra guidata dal partito erede del PCI.
Negli anni ’90, come noto, la crisi dei vecchi
partiti o, come si dice in gergo, della “Prima
Repubblica”, non fu soltanto provocata dalle
inchieste di “Mani pulite” sulla loro
corruzione, ma un ruolo importante fu giocato proprio
dall’ingente debito pubblico, che nei primi
anni ’90, come si è visto, stava raggiungendo
livelli tali da mettere in serio rischio la solvibilità
dello stesso. Per un verso va ricordato, in effetti,
che furono il Presidente della Repubblica Cossiga
ed il Presidente del Consiglio Andreotti a sottoscrivere
il Trattato di Maastricht, probabilmente convinti
che l’imposizione di un forte vincolo esterno
potesse essere l’unico modo per intraprendere
una “svolta risanatrice”, nel tentativo
di contenere il deficit ed il debito pubblico italiano,
e legittimando così la necessità di
adottare “un po’ di sacrifici” per
gli italiani; nello stesso tempo, però, fu
proprio l’esplosione dei primi casi di corruzione
(da Mario Chiesa nel febbraio ’92, agli ex sindaci
socialisti di Milano, Tognoli e Pillitteri nell’aprile
dello stesso anno) a provocare una prima cospicua
erosione di consensi ai partiti tradizionali, e la
comparsa di nuove forze “anti-sistema”
come la Lega Nord, sia in occasione delle elezioni
politiche del 5 e 6 aprile ’92, sia nelle successive
consultazioni amministrative. Persino il Presidente
Cossiga, a pochi mesi dalla scadenza del suo mandato,
aveva fiutato la necessità di una profonda
revisione costituzionale e del sistema partitico,
onde evitare il suo tragico tracollo. È in
questo contesto di generale delegittimazione, quindi,
che “la magistratura avverte di poter agire
secondo le sue prerogative e senza essere frenata
e condizionata, come in precedenza, da un personale
politico che si sentiva onnipotente, al di sopra della
legge”. Ed è in questo stesso contesto
che compaiono i “franchi tiratori” che
impediscono, sempre in quel cruciale ’92, l’elezione
al Quirinale di Andreotti (così com’era
previsto da un accordo preelettorale, che prevedeva
anche il ritorno di Craxi a Palazzo Chigi), al posto
del quale viene eletto, all’indomani della strage
di Capaci e con l’appoggio determinante del
PDS, il democristiano Presidente della Camera, Oscar
Luigi Scalfaro. Questi, tenuto conto degli sviluppi
dell’inchiesta milanese, anche se non avevano
ancora coinvolto Craxi, preferì nominare Primo
Ministro il sobrio Giuliano Amato, non a caso chiamato
“il dottor sottile”, più defilato
e più tecnico dell’esuberante leader
del PSI. Con la sola legittimazione derivante dalla
nomina presidenziale (“l’articolo 92 della
Costituzione ha finalmente trovato una qualche sua
applicazione”, dichiarò lo stesso Amato
dopo la presentazione del proprio governo), e con
il sistema partitico allo sfascio (si ricorderà,
in particolare, la continua sostituzione di ministri
che in quell’anno vennero coinvolti nelle indagini
giudiziarie), il governo Amato adottò, come
si sa, la più imponente manovra finanziaria
di sempre (anche in termini nominali), pari a circa
92mila miliardi di lire dell’epoca. Nel frattempo,
nel mese di settembre ’92, la valuta italiana
era stata svalutata e sbalzata fuori dallo SME, assieme
ad altre valute europee tra cui la sterlina inglese.
Mentre il sistema partitico si stava ristrutturando
in senso maggioritario, con il governo Amato ebbe
inizio, dunque, il processo di risanamento finanziario
del Paese che fu portato avanti, nel corso degli anni
’90, da governi tecnici (sostenuti da forze
di centrosinistra) e governi politici propriamente
di centrosinistra, nei quali, per la prima volta dal
’47, entrava a far parte l’ex PCI, nel
frattempo ridenominato “PDS”. Così,
al costo di privatizzazioni, deregulation, sacrifici,
tagli allo stato sociale, al sistema previdenziale
pubblico, ed al costo del lavoro, e di una vasta precarizzazione
di quest’ultimo, la spesa pubblica scese dal
57,7% del PIL del ’93 al 46,9% del 2000, mentre
le entrate totali rimasero stabili attorno al 46,5%
del PIL; il deficit pubblico scese, in rapporto al
PIL, dall’11,7% del ’91 allo 0,6% del
2000, grazie anche alla diminuzione dell’inflazione,
dal 6,2% del ’91 al 2,6% del 2000, dei tassi
d’interesse nominali (dal 12,2% del ’91
al 3% del ’99), e, di conseguenza, degli interessi
sul debito (dal 13% del PIL del ’93, al 6,5%
del 2000); anche il debito pubblico, pertanto, scese
giù, dal già ricordato 124,8% del PIL
del ’94 al 111,2% del 2000. Grazie a tutto ciò,
e ad una congiuntura economica positiva a partire
dal ’95, ma anche all’adozione di una
nuova ingente manovra finanziaria per il 1997, l’Italia
riuscì nell’impresa di entrare nell’UME
nel ’99 col gruppo di testa, obiettivo “inimmaginabile
fino a due o tre anni prima”. Ad eccezione del
controverso “buco di bilancio” che il
secondo governo Amato avrebbe lasciato in eredità,
nel 2001 il governo Berlusconi ha “preso in
consegna”, dunque, un Paese con un debito pubblico
ridimensionato (110,9% del PIL nel 2001) ed un deficit
sotto controllo. Se l’obiettivo strategico che
ha ispirato la politica economica dei governi di centrosinistra
negli anni ’90 è stato quello del risanamento
finanziario, al contrario l’obiettivo dichiarato
che ha ispirato la politica economica del governo
di centrodestra presieduto da Berlusconi nell’ultima
legislatura è stata la riduzione della pressione
fiscale (“meno tasse per tutti”), anche
a costo di “sforare” i vincoli di bilancio
posti dal Patto di Stabilità, ritenuti inutili
“lacciuoli” alla crescita economica. Questo
obiettivo, però, è stato perseguito
non attraverso un piano organico, bensì attraverso
una serie di provvedimenti estemporanei tali da non
provocare effetti strutturali sul bilancio. Si è
trattato, quindi, della famosa “finanza creativa”
del suo vulcanico Ministro Tremonti, i cui principali
provvedimenti sono stati l’abolizione della
tassa di successione, gli sgravi fiscali sugli investimenti
(cd. “Tremonti bis”), le cartolarizzazioni,
i condoni, la riforma fiscale in due fasi, il parziale
innalzamento delle pensioni minime, per arrivare,
infine, allo scontro con le parti sociali sulla flessibilità
del mercato del lavoro. Questi provvedimenti estemporanei
non solo non hanno migliorato la difficile stagnazione
economica dei primi anni duemila (crescita media annua
del PIL pari ad un misero 0,7% nella legislatura,
contro una propagandistica ed improbabile previsione
al 3% ), ma, a causa anche di quest’ultima,
hanno provocato l’effetto di deteriorare nuovamente
i conti pubblici: il deficit, infatti, è rimasto
stabilmente al di sopra del fatidico 3% a partire
dal 2003, e nel ’05 ha raggiunto quota 4,2%.
Di conseguenza, anche la riduzione del debito si arrestò
a quota 104% del PIL nel ’04, per poi risalire
nuovamente sopra quota 106% nel ’05. Fino ad
allora, il governo Berlusconi era riuscito a scansare
le famigerate sanzioni finanziarie della Commissione
Europea, sia perché, in occasione del Consiglio
Europeo di novembre ’03 a Napoli (con l’Italia
presidente di turno dell’UE), come si è
accennato, Francia e Germania furono “graziate”
(benché i loro deficit avessero superato addirittura
il 4% del PIL in quell’anno), e sia perché
i conti pubblici furono adeguatamente “ritoccati”,
in modo tale che il deficit italiano degli anni ’03
e ’04 risultasse non superiore al 2,7% del PIL.
Una volta scoperto l’inganno, però, il
governo Berlusconi, che entrava nell’ultimo
anno di legislatura, dovette negoziare con la Commissione
Europea, al fine di evitare le sanzioni, un piano
di rientro del deficit al di sotto del 3% del PIL
entro il 2007. Dopo l’esito, ancorché
incerto, delle elezioni 2006, fu chiaro che il compito
di togliere le castagne dal fuoco sarebbe toccato,
ancora una volta, al governo Prodi. Il Patto di Stabilità
e la manovra finanziaria del 2007 Sulla scorta delle
scelte di politica economica effettuate in Italia
dai due schieramenti negli ultimi dieci anni, Ricolfi
ha intitolato un capitolo di un suo brillante pamphlet,
pubblicato un paio di anni fa, “Il mondo alla
rovescia”, ritenendo che in questo periodo in
Italia le politiche economiche tradizionalmente di
sinistra siano state attuate in misura maggiore dal
governo di centrodestra, e viceversa. Benché,
ad un’analisi più accurata, questa conclusione
debba essere parzialmente smorzata, alcune considerazioni
di fondo restano comunque vere. In sintesi, si può
dire che: a) la pressione fiscale nel corso della
legislatura di centrosinistra è aumentata nei
primi anni, per la necessità di centrare l’ingresso
nell’UME, e poi è diminuita negli ultimi
due anni (dal 42,2% del ’96 al 43% del ’99,
e poi di nuovo al 42,2% nel ’01), così
da ritornare al livello iniziale. Essa è invece
leggermente diminuita, ma meno di quanto annunciato,
nella legislatura del governo Berlusconi (dal 42,2%
del ’01 al 41,3% del ’05), anche se le
stime per il 2006 indicano un’ulteriore riduzione,
attorno al 40,6%; b) la spesa per il welfare è
aumentata nel corso di entrambe le legislature, ma
in misura maggiore durante il governo Berlusconi (rispettivamente,
dal 18,9% del PIL al 19,2% negli anni del centrosinistra,
e dal 19,2% fino al 20,3% del ’05), anche se
tale aumento è imputabile più ad una
mancata crescita del denominatore che non ad una reale
crescita della spesa sociale; c) il deficit pubblico
è diminuito nel corso della legislatura di
centrosinistra, mentre è aumentata in quella
successiva (rispettivamente, dal 7,1% del PIL del
’96 allo 0,6% del 2000, e poi al 3,2% del ’01;
successivamente, da questo valore fino al 4,1% del
’05). Nel primo anno del nuovo governo Prodi,
inoltre, questo avrebbe ricominciato a scendere sensibilmente,
fino al 2,4% del PIL, se non fosse per gli oneri una
tantum legati alla sentenza europea sull’Iva
per le auto aziendali, che il governo pensava di non
dover considerare nel conteggio, e che invece fanno
risalire il deficit al 4,4% del PIL per il 2006. In
ogni caso, è prevista la riduzione fino al
2,8% per il 2007; d) di conseguenza, il debito pubblico
è rapidamente diminuito negli anni dei governi
di centrosinistra, mentre ha rallentato la sua riduzione,
fino a tornare a crescere, durante il governo Berlusconi.
Da questa breve comparazione delle due politiche economiche,
si può concludere che il governo Prodi e la
sua maggioranza, benché siano formalmente di
centrosinistra e pertanto, almeno in teoria, dovrebbero
essere più “predisposti” ad adottare
una politica fiscale più espansiva e redistributiva,
in realtà non soltanto non ha mai dimostrato
tale “predisposizione”, ma ha introiettato
a tal punto l’apparato concettuale che sta dietro
ai vincoli del Patto di Stabilità, da mettere
al Ministero dell’Economia, come sorta di fideiussore
dell’elevato debito pubblico italiano, uno dei
più autorevoli “padri” dell’Euro,
Tommaso Padoa Schioppa. Per contro, la maggioranza
di centrodestra del governo Berlusconi ha maggiormente
perseguito un’autonoma politica economica di
destra, perseguendo la riduzione della pressione fiscale,
ma limitandosi a non far crescere la spesa pubblica
(rimasta pressoché stabile attorno al 49,2%
del PIL nel corso della legislatura, a differenza
delle riduzioni operate dai precedenti governi di
centrosinistra) con provvedimenti estemporanei; inoltre,
il governo Berlusconi ha tollerato pochissimo le ingerenze
europee ed i vincoli del Patto di stabilità.
Questo dovrebbe essere sufficiente per spiegare perché
la manovra finanziaria 2007, la prima varata dal nuovo
governo di centrosinistra è stata così
cospicua. In più, si tenga presente che, qualora
il rientro del deficit al di sotto del 3% non dovesse
avvenire entro quest’anno (ipotesi che comunque
appare improbabile, visto anche l’extra gettito
fiscale registrato in questi primi mesi dell’anno),
potrebbero incombere ancora una volta le famigerate
sanzioni previste dal Patto di stabilità, anche
se, tenendo conto della già ricordata formula
di stabilizzazione del debito, ed ipotizzando per
quest’anno (secondo stime prudenziali) una crescita
nominale del PIL pari al 4% (con un’inflazione
al 2% circa), la discesa del debito (ad esempio, verso
il 90% del PIL) sarebbe stata garantita anche con
un deficit non superiore al 3,6% del PIL. In questo
modo, sarebbe stato possibile destinare maggiori risorse
allo sviluppo, nel tentativo di sollecitare una crescita
del PIL più elevata negli anni successivi,
e per questa via proseguire il risanamento. In ogni
caso, si sarebbe trattato di un rientro più
graduale che non avrebbe pregiudicato l’eterno
processo di “risanamento” dei conti pubblici
italiani, e che avrebbe impedito, come si dice in
questi casi, di “uccidere” la crescita
economica nella culla. Infatti, per far scendere così
rapidamente il rapporto tra deficit e PIL, la manovra
finanziaria 2007 ha previsto non soltanto nuove entrate
per dodici miliardi di euro, tra lotta all’evasione
e nuove imposte, ma ha soprattutto operato tagli alla
spesa pubblica per ulteriori dodici miliardi in settori
cruciali come la sanità, l’istruzione,
la ricerca e gli Enti Locali (su cui si è già
tagliato abbondantemente negli ultimi otto anni),
e si minaccia di farlo sul sistema previdenziale,
attraverso una nuova riforma. Paradossalmente, invece,
sono state ulteriormente aumentate le spese militari
per il mantenimento della “missione di pace”
in Afghanistan e per il finanziamento della nuova
missione in Libano. A fronte di questa situazione,
inoltre, si è deciso di finanziare, per circa
sei miliardi di euro, il taglio di ben cinque punti
percentuali del cuneo fiscale a favore delle imprese
(per la precisione, il 60% di questo taglio è
stato destinato alle imprese, mentre il restante 40%
è stato utilizzato per introdurre delle detrazioni
fiscali per le famiglie più numerose). In questo
modo, il rischio è quello di strozzare la crescita
impedendo, ancora una volta, la ripresa dei consumi
e la redistribuzione del reddito. Questa situazione,
infine, risulta essere aggravata dalle scelte di politica
monetaria adottate dalla BCE negli ultimi mesi che,
pur in assenza di sostanziali tensioni inflattive,
ha deciso nell’ultimo anno un innalzamento di
oltre un punto percentuale (da 2,2% a 3,5%) dei tassi
d’interesse, soltanto perché le previsioni
di crescita economica in Europa per gli anni 2006
e 2007 sono, finalmente, un po’ più alte
rispetto ai bassi livelli degli anni precedenti. Conclusioni
Si è visto che l’ingente debito pubblico
italiano ha origini lontane e diverse: è il
frutto della peculiare storia politica italiana e
delle conseguenti scelte di politica monetaria ed
economica fatte nel corso degli ultimi 35 anni. Nei
primi anni ’90, l’entità e la dinamica
del debito pubblico italiano furono tali da porre
in serio pericolo la sua solvibilità e la stabilità
monetaria del Paese, e fu questa una delle cause che
agevolò il collasso del vecchio sistema partitico
(che prese impropriamente il nome di “Prima
Repubblica”). Spettò alla formazione
erede del vecchio PCI guidare le coalizioni di governo
che nel corso degli anni ’90, legittimate dai
vincoli imposti dall’Europa, riuscirono nell’impresa
di “risanare” le finanze pubbliche italiane,
facendo pagare il conto, però, al sistema di
welfare, ai salariati, ed alle garanzie del mondo
del lavoro. Si è visto anche che la definizione
dei vincoli ai bilanci pubblici nel Trattato di Maastricht
e nel Patto di stabilità hanno avuto una genesi
del tutto peculiare: sono stati il frutto non soltanto
del paradigma economico dominante (sfiducia nella
politica, fiducia nella tecnica, priorità alla
stabilizzazione monetaria anziché alla crescita
ed all’occupazione, ecc.), ma anche delle ansie
delle tecnocrazie tedesche e dell’Europa Centrale.
Dal punto di vista economico, non vi è razionalità
nella definizione dei parametri, che risulta essere,
infatti, del tutto arbitraria. Se negli anni ’90
il percorso di integrazione monetaria, pur avendo
avuto una ricaduta negativa sia in termini di mancata
crescita economica, sia in termini di concentrazione
del reddito, ha avuto comunque il merito di salvare
l’Italia dal rischio di insolvenza del proprio
debito, questo non vale più negli anni 2000.
La politica monetaria eccessivamente restrittiva adottata
dalla BCE e gli irrazionali vincoli posti dal Patto
di stabilità, pertanto, sono alla base del
grave e prolungato periodo di stagnazione economica
attraversato dall’Europa nei primi anni del
nuovo millennio e, per quanto riguarda l’Italia,
sono alla base (congiuntamente alle gravi debolezze
strutturali del sistema industriale del Paese) di
uno dei periodi di crisi economica più gravi
di tutta la sua storia unitaria. Per contro, il debito
pubblico italiano, ancorché molto elevato,
risulta essere attualmente stabilizzato, e nell’Unione
Monetaria, come si è visto, il rischio di insolvenza
risulta essere estremamente ridotto. Appare quindi
necessario che il governo di centrosinistra cominci
ad adottare una politica economica più espansiva,
volta al rilancio dei consumi, della crescita, di
occupazione stabile e di una nuova redistribuzione
del reddito, e che, per questa via, prosegua nella
progressiva riduzione del debito pubblico.
Andrea Manganaro
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