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Politica
10.12.07
L'annoso dibattito sul sistema elettorale italiano,
tra precari equilibri democratici e "truffaldine"
tentazioni plebiscitarie
di ANDREA MANGANARO
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L'Italia, si sa, è un classico esempio di
democrazia di tipo consensuale, secondo la celebre
classificazione elaborata dal politologo Arend Lijphart,
trattandosi di un Paese, al pari di molti altri
dell'Europa continentale, caratterizzato da una
società culturalmente e politicamente non
omogenea.1 In questi Paesi, normalmente il governo
maggioritario si rivela non soltanto non adeguato,
ma persino pericoloso poiché le minoranze
escluse dal governo potrebbero percepirsi discriminate
e divenire anti-sistema. Per questo motivo, le democrazie
consensuali hanno normalmente almeno alcune delle
seguenti caratteristiche: a) governi sostenuti da
maggioranze piuttosto ampie, formate da coalizioni
comprendenti diverse forze del sistema partitico;
b) separazione formale ed informale del potere legislativo
da quello esecutivo; c) bicameralismo (più
o meno simmetrico); d) sistema partitico caratterizzato
da molte forze politiche (multipartitismo) e multidimensionale
(cioè caratterizzato da diverse fratture:
etniche, di classe, religiose, linguistiche, ecc.);
e) sistema elettorale di tipo proporzionale; f)
federalismo territoriale e/o marcato decentramento
politico; g) costituzione scritta e potere di veto
delle minoranze su eventuali modifiche; h) forme
di partecipazione democratica diretta (referendum,
leggi di iniziativa popolare, ecc.).
Se nei Paesi più piccoli il modello di democrazia
consensuale ha storicamente tenuto, quelli più
grandi, viceversa, sono stati attraversati da esperienze
di tipo autoritario: è il caso, notoriamente,
dell'Italia, della Spagna, e della Germania. La
democrazia consensuale richiede, infatti, mediazioni
e tempi più lunghi, e processi decisionali
fortemente formalizzati, a tutela delle minoranze.
Questo ha spesso provocato, dunque, forte instabilità
politica e maggiore difficoltà nel mantenimento
del consenso nei confronti di governi talvolta o
spesso costretti all'inazione. In questi Paesi,
quindi, è più facile che emergano
nelle fasi di crisi forze anti-sistema autoritarie,
poco disposte alla mediazione, e pronte a proporre
la scorciatoia populista in luogo delle classiche
“cinghie di trasmissione” partitiche,
normalmente in grado di garantire una democratica
partecipazione politica, sebbene oggi queste forme
di partecipazione siano in diversi Paesi in crisi
da almeno un paio di decenni (in pratica, dall'entrata
in crisi del cosiddetto “compromesso fordista-keynesiano”).
Rispetto a queste caratteristiche generali delle
democrazie europee di tipo consensuale, il caso
italiano è stato caratterizzato per ben quarant'anni
da una evidente anomalia: il persistere sistematico
all'opposizione, per la sua natura ideologica e
la sua collocazione internazionale, della seconda
forza politica del sistema partitico, ovvero il
Partito Comunista Italiano (PCI) che, come noto,
arrivò a raccogliere nel momento di sua massima
espansione oltre un terzo dei consensi espressi.
Soltanto la priorità strategica assegnata
dal PCI alla difesa dell'ordinamento democratico
sin dalla svolta di Salerno (ma anche il proliferare
di pratiche spartitorie e consociative soprattutto
nel corso degli anni '80) poté garantire
la tenuta di una democrazia di tipo consensuale
nonostante la sistematica collocazione all'opposizione
di una delle sue principali formazioni politiche.
In effetti, tale esclusione del PCI dall'area di
governo (congiuntamente alla formale esclusione
del partito erede e culturale dell'ultima fase del
regime fascista, ed in particolare della famigerata
Repubblica di Salò, ovvero il MSI), è
stata alla base dell'estremprecarietà dei
governi che ha sempre caratterizzato l'Italia repubblicana,
poiché non ha mai potuto aver luogo l'alternarsi
al governo ed all'opposizione di partiti e schieramenti
diversi. Così, al calo progressivo dei consensi
della DC per effetto del processo di secolarizzazione
attraversato anche dalla società italiana,
il partito di maggioranza relativa si è trovato
costretto a coinvolgere sistematicamente nell'area
di governo tutte le forze politiche del sistema
partitico al di fuori del PCI (con l'importante
eccezione rappresentata dal periodo del “compromesso
storico” e della “solidarietà
nazionale”) e dell'anticostituzionale MSI
(benché anche in questo caso un tentativo
sia stato fatto, come noto, nel '60 con il governo
Tambroni), rendendo quindi impraticabile qualsiasi
alternativa. Questa condizione del sistema politico
italiano è stata brillantemente definita
come “bipartitismo i”. 2
Già in passato, peraltro, la storia unitaria
italiana era stata caratterizzata dall'alternarsi
di due tipi di governo: uno a vocazione “democratica
consensuale”, ed uno a vocazione “carismatica
autoritaria”. Così, ad esempio, al
“trasformismo storico”, ovvero all'alleanza
tra destra e sinistra storica che caratterizzò
i governi Depretis negli anni '70 ed '80 dell'800,
subentrò l'autoritario governo Crispi (dal
1887 al 1896, con qualche interruzione), ovvero
l'uomo forte che l'intero ceto notabilare aveva
voluto per contenere e reprimere i movimenti e partiti
di massa nascenti (repubblicani, radicali, socialisti
ed anarchici), che in quegli anni stavano divenendo
sempre più forti, e per dar vita all'imperialismo
(straccione) italiano. Allo stesso modo, ai governi
Crispi (ed alle sue appendici reazionarie, ovvero
i governi Sonnino e Pelloux, quello che mandò
il famigerato ufficiale Bava Beccaris a sparare
contro la folla a Milano che manifestava contro
la crescita dei prezzi dei beni di prima necessità),
subentrarono i governi Zanardelli e Giolitti, che
adottarono riforme progressiste e per la prima volta
allargarono l'area di governo ad alcuni esponenti
del socialismo riformista (nel senso originale del
termine). Alla fine della Grande Guerra, i partiti
di massa entrarono in misura cospicua nel Parlamento
Italiano, e le elezioni politiche del '19 furono
le prime a suffragio universale maschile, e con
sistema proporzionale; tuttavia, il vecchio ceto
liberale – benché ancora maggioritario
a livello parlamentare – non poteva essere
più in grado di coinvolgere, di far partecipare
e di ottenere il consenso delle masse mobilitate
dalla guerra stessa, e precipitosamente scese nell'arena
politica dopo la “vittoria mutilata”.
Furono queste le premesse che permisero l'ascesa
di quella nuova e tragica forma di governo autoritario
carismatico, che prese il nome di “fascismo”:
il partito unico come cinghia di trasmissione alimentata
dal carisma di un uomo solo al comando, ed in grado
(anche se non sempre con successo) di mobilitare
permanentemente la società verso lo Stato.
Nella fase di instaurazione della dittatura fascista,
un ruolo importante fu giocato proprio dalla prima
manipolazione del meccanismo elettorale, quello
che potremmo definire come “il peccato originale”
per ciò che concerne la rappresentazione
politica di massa, e che non a caso trent'anni più
tardi fu esplicitamente riconosciuta come “truffa”.
Si sta parlando, naturalmente, della legge Acerbo
del '23, che prevedeva l'assegnazione dei due terzi
dei seggi all'assemblea parlamentare alla lista
che avrebbe ottenuto la maggioranza dei voti, purché
almeno il 25% di essi. Il partito fascista ottenne
così i due terzi dei seggi in occasione delle
elezioni del '24, pur contrassegnate da comprovati
brogli la cui denuncia, come noto, costò
la vita al deputato socialista Giacomo Matteotti,
assassinato per questo motivo dalla barbarie fascista.
Dopo un'iniziale sbandamento del governo Mussolini,
nel '25 l'adozione delle cosiddette “leggi
fascistissime” diede inizio alla dittatura
vera e propria, con l'esautorazione di fatto del
Parlamento e la messa fuori legge dei partiti e
dei sindacati.
Con la fine del fascismo e l'instaurazione della
democrazia al termine della seconda guerra mondiale,
la rappresentanza elettorale, per la prima volta
estesa anche alle donne, non poteva che essere di
tipo proporzionale. Pur con l'anomalia di cui s'è
detto, ovvero la sistematica collocazione all'opposizione
del PCI, si instaurò in Italia una democrazia
di tipo consensuale, resa tale – si ricorda
– non soltanto per il progressivo allargamento
dell'area di governo delle forze politiche a sinistra
della DC, ma anche per le pratiche consociative
di cui s'è detto. Eppure, già nel
'53 le difficoltà della DC nella formazione
di maggioranze di governo ampie e stabili indusse
il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi a
presentare una legge che prevedeva l'assegnazione
del 65% dei seggi al partito od alla coalizione
che avesse ottenuto la maggioranza assoluta dei
voti. Approvata all'ultimo momento, in violazione
dei regolamenti delle due camere (specie al Senato),
si trattava di una legge che evocava inevitabilmente
quella Acerbo, sia pure con la sostanziale differenza
che nel '53 il premio di maggioranza sarebbe scattato
soltanto previo l'ottenimento della maggioranza
assoluta dei voti. Definita subito “legge
truffa” dalle opposizioni, si opposero a questa
legge anche minoranze liberali, repubblicane e socialdemocratiche,
evidentemente contrarie ad una legge che molto probabilmente
avrebbe assegnato la maggioranza assoluta dei seggi
alla DC. La defezione di queste minoranze non fece
scattare, sia pure per una manciata di voti (circa
lo 0,3%), il premio di maggioranza, ciò che
segnò la fine politica di De Gasperi.
All'indomani del collasso del blocco sovietico,
che inevitabilmente contribuì al collasso
del sistema partitico italiano, l'opinione pubblica
e le forze politiche sopravvissute furono pressoché
unanimi nel ritenere, ingenuamente o in malafede,
che la precarietà dei governi della “Prima
Repubblica” dipendesse dal sistema elettorale
proporzionale. Si sosteneva, in pratica, che alla
base della breve durata degli esecutivi italiani
(se ne susseguirono ben 44 nei 46 anni compresi
tra il 1948 ed il 1994) vi fosse quella frammentazione
partitica che non avrebbe permesso di formare maggioranze
stabili al partito di maggioranza relativa (la DC),
costringendo quest'ultimo a sottostare alle richieste
dei piccoli ma petulanti alleati di coalizione.
Quest'affermazione, in realtà, può
essere facilmente smentita considerando che il numero
medio di partiti presenti nel sistema partitico
italiano è sempre stato in linea, e talvolta
perfino inferiore, rispetto a quello medio europeo:
infatti, il numero di partiti mediamente presenti
nel sistema partitico italiano, calcolato con il
classico indice di Laakso e Taagepera,3 è
stato pari a 3,5 tra gli anni '70 ed '80 (e più
basso ancora in precedenza): 3,32 nel '76, 3,45
nel '79, 4,02 nell'83; si tratta di un livello allineato
e persino leggermente inferiore a quello medio europeo,
pari a 4,16 nella seconda metà degli anni
'80. Inoltre, quasi tutte le democrazie europee
hanno adottato, così come oggi, un sistema
elettorale di tipo proporzionale (fanno eccezione
soltanto la Gran Bretagna, da sempre, e la Francia
dal '58), senza che questo abbia necessariamente
comportato instabilità politica.
Naturalmente, le forze politiche vecchie e nuove
che non furono travolte da quel ciclone che prese
il nome di “Tangentopoli” pensarono
di poter ottenere una nuova legittimazione attraverso
la messa al bando del sistema proporzionale e l'introduzione
di un sistema elettorale di tipo maggioritario tramite
un referendum dal chiaro esito plebiscitario, e
che fu caricato di un forte significato catartico
per le sorti della democrazia italiana. In realtà,
come si è detto, la legge elettorale maggioritaria
era inadatta per una tipica democrazia consensuale,
in un Paese storicamente e tradizionalmente caratterizzato
da molteplici culture politiche e molteplici interessi:
si è trattato, infatti, di imporre al sistema
politico italiano una soluzione tecnica, ovvero
un bipolarismo coatto, che mal si attagliava ai
problemi politici italiani, e che in quanto tali
avrebbero necessitato di soluzioni politiche, ben
più difficili di un semplice plebiscito o
di qualche espediente di ingegneria istituzionale.
Invece, come purtroppo spesso è accaduto
in passato nei momenti di discontinuità,
come si è visto, si finì per gettare
via gli elementi di garanzia peculiari della democrazia
consensuale: con i partiti corrotti, in particolare,
furono liquidati (e non sostituiti) gli incancreniti
corpi intermedi in grado di veicolare la partecipazione
democratica dalla società civile al potere
politico, col prevedibile risultato di aprire il
campo ad ogni tipo di movimento politico rozzo,
a vocazione leaderistica, carismatica, personalistica
ed autoritaria cui sarebbero state riconosciute
virtù salvifiche e catartiche: dalla xenofoba
Lega Nord, che già da alcuni anni imperversava
nel sistema politico italiano, al MSI, all'epoca
ancora in larga misura dichiaratamente fascista,
fino alla celebre formazione politica creata in
pochi mesi su misura da e per l'uomo nuovo: “Forza
Italia”, del cavaliere (del lavoro) Silvio
Berlusconi, più spesso chiamato semplicemente
“il Cavaliere”.
Sulla base di questa breve ricostruzione storica,
dunque, risulta tremendamente facile riconoscere
nella crisi della lunga fase di democrazia consensuale
italiana l'avvicendamento di una fase di governi
definiti di tipo “carismatico autoritario”.
Ed anche se i governi Berlusconi non hanno nemmeno
minacciato di sospendere le garanzie democratiche,
appare tuttavia evidente che le prassi di governo
degli ultimi quindici anni hanno sostanzialmente
modificato la costituzione materiale del Paese,
introducendo di fatto una sorta di premierato spurio,
con una predominanza dell'esecutivo sul legislativo
ed un'indiscutibile personalizzazione della politica
dovuta alla legittimazione di tipo carismatico della
leadership.4 Anche sul piano sociale, inoltre, gli
esecutivi degli ultimi quindici anni, con la sola
legittimazione proveniente dall'Europa e dalla necessità
di mettere in ordine nei conti pubblici, ponendo
fine al cosiddetto “compromesso fordista-keynesiano”,
hanno progressivamente ridotto la protezione sociale,
contribuendo così a dare forza – così
come è avvenuto in molti altri Paesi europei
– alle formazioni politiche di tipo populista,
xenofobe ed anti-democratiche.5
La legge elettorale scaturita dal referendum del
'93, come noto, fu redatta da una commissione parlamentare
presieduta dal democristiano Mattarella, che reintrodusse
il sistema maggioritario (con collegi uninominali)
per i tre quarti dei seggi delle due camere, e salvaguardando
una quota proporzionale, corrispondente al restante
quarto di seggi. Naturalmente, la nuova legge si
rivelò ben presto inadeguata a risolvere
i problemi politici legati alla stabilità
degli esecutivi: infatti, se è vero che il
sistema maggioritario fornisce una maggioranza più
larga alla coalizione che vince, è anche
vero, però, che per vincere la coalizione
deve essere quanto più ampia possibile, coinvolgendo
dunque quante più forze politiche è
possibile. Indubbiamente, con il sistema maggioritario
le coalizioni di governo vengono individuate prima
delle elezioni, evitando così quei lunghi
rituali (le consultazioni del Capo dello Stato con
le segreterie politiche, e le negoziazioni tra queste
ultime) che in passato caratterizzavano il processo
di formazione di una maggioranza dopo le elezioni
politiche. Tuttavia, la presenza di piccole e numerose
formazioni all'interno di ciascuna coalizione hanno
reso queste ultime instabili tanto quanto (se non
di più) avveniva con il sistema proporzionale:
e non a caso, infatti, l'indice di Laakso e Taagepera
calcolato nella camera dei deputati uscita, ad esempio,
dalle elezioni del '96 segnala la presenza di ben
6,18 partiti, contro una media europea pari al 4,09
in quegli anni.
Ma i problemi legati all'introduzione del sistema
maggioritario in una democrazia consensuale quale
è l'Italia non finiscono qui: in caso di
crisi di governo, infatti, la Costituzione italiana
assegna il pallino della situazione al Presidente
della Repubblica (così come normalmente avviene
nella maggior parte delle democrazie), che rimane
così il vero artefice della risoluzione delle
crisi politiche, così come previsto dal combinato
disposto degli articoli 88 (facoltà di sciogliere
anticipatamente le camere, sentiti i due presidenti
delle camere stesse) e 92 (nomina del presidente
del consiglio) della Costituzione. Tuttavia, il
sistema maggioritario rende fisiologica l'indicazione
preventiva delle coalizioni e del candidato alla
presidenza del consiglio: così, pur essendo
state formalmente ed anche sostanzialmente rispettate
le competenze del Capo dello Stato, negli ultimi
quindici anni la costituzione materiale si è
trasformata nel senso di ridurre tali competenze.
Ad esempio, il cosiddetto “ribaltone”,
ovvero la caduta del primo governo Berlusconi ad
opera della Lega Nord alla fine del '94, non ha
comportato automaticamente lo scioglimento delle
camere, come invece avrebbe voluto il “Cavaliere”
facendosi interprete del mutamento in atto della
costituzione materiale; allo stesso modo, la caduta
del governo Prodi nel '98 ad opera di Rifondazione
Comunista non ha comportato lo scioglimento delle
camere; tuttavia, tutte le tre elezioni politiche
svoltesi con il sistema maggioritario ('94, '96
e '01) hanno visto l'indicazione preventiva delle
coalizioni e del candidato presidente del consiglio.
Ci sono, poi, almeno altre tre controindicazioni
tipiche dei sistemi elettorali di tipo maggioritario:
la prima è che nulla garantisce a priori
che tali sistemi producano una evidente maggioranza.
Nel caso delle elezioni politiche del '94, ad esempio,
l'alleanza composta dal “Polo delle libertà”
(“Lega Nord” più “Forza
Italia” al nord) e “Polo del buongoverno”
(“Alleanza Nazionale” più “Forza
Italia” al sud) non aveva ottenuto la maggioranza
dei seggi al senato, che fu comunque garantita al
primo governo Berlusconi dal voto favorevole di
alcuni senatori centristi e dei senatori a vita
(oggi tanto deprecati dallo stesso “Cavaliere”).
Lo stesso presidente del Senato Scognamiglio fu
eletto in quell'occasione con un solo voto di scarto
sul candidato sostenuto dalle opposizioni (Spadolini).
Molti sostennero che questo cattivo funzionamento
del sistema maggioritario in Italia dipendesse dalla
residua quota proporzionale con cui venivano assegnati
un quarto dei seggi. Tuttavia, anche in Gran Bretagna,
ovvero nella patria del “modello Westminster”
di democrazia in cui da sempre è in vigore
il sistema maggioritario, vi sono stati casi in
cui non emerse una chiara maggioranza: ad esempio,
in occasione delle elezioni del '64 il partito laburista
ottenne una maggioranza di soli quattro seggi che
indusse il premier Wilson all'indizione di nuove
elezioni nel '66; nel febbraio del '74, il partito
conservatore ottenne soltanto 297 seggi pur avendo
ottenuto la maggioranza relativa dei voti (il 37,9%),
mentre il partito laburista ottenne 301 seggi (su
630) con il 37,2% dei voti. Nessuno dei due partiti,
dunque, ottenne la maggioranza assoluta, e si dovettero
indire nuove elezioni per il successivo mese di
ottobre, nelle quali i laburisti ottennero una risicata
maggioranza di soli quattro seggi, che li indusse
a formare una coalizione con il partito liberale
e le minoranze scozzesi e gallesi.
La seconda controindicazione dei sistemi maggioritari
è che essi sono assolutamente poco democratici,
assegnando ampie maggioranze assolute di seggi a
partiti che ottengono semplici maggioranze relative:
ad esempio, sempre in Gran Bretagna, nell'83 il
partito conservatore ottenne il 61,1% dei seggi
con solo il 42,4% dei voti; viceversa, il partito
liberaldemocratico ottenne soltanto il 4% dei seggi
pur avendo ottenuto il 25,4% dei suffragi, per effetto
della eterogenea distribuzione territoriale dei
propri consensi; analogamente, nel '97 il partito
laburista ottenne il 63,6% dei seggi con solo il
43,1% dei voti. In pratica, appare del tutto iniquo
il principio per cui chi arriva primo nel singolo
collegio uninominale ottiene tutto e nulla viene
lasciato alle minoranze. Inoltre, tale iniquità
è ancora più grande se si tiene conto
del fatto – ed è la terza controindicazione
dei sistemi elettorali maggioritari – che
la maggioranza dei seggi potrebbe persino essere
assegnata al partito che prende meno voti. Non si
tratta di casi remoti: si è già visto,
infatti, che nel febbraio '74 il partito laburista
ottenne più seggi pur avendo ottenuto meno
voti del partito conservatore; viceversa, nel '51
il partito conservatore ottenne la maggioranza dei
seggi (321 su 625), ciò che permise a Churchill
di tornare Primo Ministro dopo sei anni di governo
laburista, con solo il 48% dei voti, cioè
meno del 48,8% dei suffragi ottenuti dai laburisti,
che tuttavia ottennero soltanto 295 seggi.
Tornando al caso italiano, il sistema in prevalenza
maggioritario varato dalla Commissione Mattarella
(da cui il nome con cui viene designato tale sistema,
“Mattarellum”) non garantì –
come noto – la stabilità degli esecutivi:
infatti, negli undici anni in cui è stato
in vigore, si sono susseguiti ben otto governi.
E' pur vero che il Parlamento eletto con questo
sistema nel 2001 fornì alla coalizione di
centro-destra (che pure vinse per meno di due punti
percentuali di scarto alla Camera, e circa tre punti
di scarto al Senato, ma con uno scarto molto più
ampio, pari a circa quattordici punti percentuali,
nella quota proporzionale della Camera) una maggioranza
così ampia (oltre cento deputati e circa
quaranta senatori in più rispetto all'opposizione)
da rendere possibile la sopravvivenza del governo
più longevo della storia repubblicana (il
secondo governo Berlusconi, con oltre 1400 giorni
di durata, dal giugno 2001 all'aprile 2005); ma
è anche vero che tale maggioranza rimase
sempre molto turbolenta nel corso di questi quasi
quattro anni, con inediti e numerosi avvicendamenti
di ministri di primaria importanza (esteri, interni,
economia, sanità, funzione pubblica) e numerose
defenzioni dalla stessa maggioranza parlamentare
nel corso della legislatura. Anzi, per garantire
la sopravvivenza così a lungo del governo
Berlusconi, si narra persino che fosse stato sottoscritto
tra Forza Italia e la Lega Nord un contratto depositato
presso un notaio in cui si concordava, in cambio
della fiducia al governo per l'intera legislatura
da parte della seconda, una riforma costituzionale
in senso federalista.
In ogni caso, nonostante questa perdurante precarietà
politica dei governi italiani, gli estremisti ed
anti-partitici sostenitori del sistema maggioritario
(in primo luogo i radicali, ed in secondo luogo
– non a caso – le due formazioni eredi
del PCI e del MSI, ovvero dei due partiti in precedenza
esclusi dall'area di governo), recuperando una vecchia
idea della rivoluzione francese secondo cui non
ci dovrebbe stare niente in mezzo tra il cittadino
e la Repubblica, e continuando ad ignorare l'eterogeneità
politica e culturale italiana, ritenevano che tale
perdurante precarietà politica dipendesse
dalla residua quota proporzionale prevista dal “Mattarellum”:
eliminando tale quota, dunque, si credeva che i
problemi di “governabilità” del
Paese sarebbero stati improvvisamente risolti. A
tal fine, furono raccolte le firme per ben due consultazioni
referendarie con lo stesso oggetto, ovvero l'abolizione
della quota proporzionale, nel giro di soli tre
anni, nel '97 e nel 2000: in entrambi i casi, però,
i votanti non raggiunsero il quorum previsto, pari
alla maggioranza assoluta degli aventi diritto,
cosicché le consultazioni non furono valide
(nel secondo caso non ci si arrivò per una
manciata di votanti, circa lo 0,4% degli aventi
diritto): nel giro di pochi anni, dunque, l'elettorato
italiano aveva cominciato a diffidare delle presunte
capacità salvifiche per il Paese del sistema
maggioritario.
La volontà del Cavaliere di formalizzare
quel cambiamento della costituzione materiale in
atto già da diversi anni, che per molti aspetti
era auspicato anche da vasti settori dell'opposizione
di centrosinistra, e di sancire così il predominio
del potere esecutivo su quello legislativo, congiuntamente
alla necessità di varare una riforma in senso
federalista promessa alla Lega Nord, si tradusse
nel 2004 in un progetto di riforma costituzionale
di proporzioni inedite presentato dal governo Berlusconi,
con la modifica di ben 55 articoli su un totale
di 139, approvata nel giro di due anni in doppia
lettura da parte di ciascun ramo del Parlamento,
così come previsto dall'art.138 della Costituzione
stessa. Tale progetto, tuttavia, fu bocciato nel
mese di giugno 2006 dall'elettorato, con un referendum
confermativo previsto dallo stesso articolo 138.
Qualora fosse stata approvata, tale riforma avrebbe
trasformato la democrazia parlamentare italiana
in un premierato vero e proprio che non trova eguali
in Europa, e che avrebbe ridotto il Presidente della
Repubblica in un mero notaio pronto a ratificare
la volontà ed i capricci del Primo Ministro.
In particolare, al Capo dello Stato sarebbe stata
sottratta la fondamentale prerogativa di scioglimento
discrezionale delle camere (una volta sentiti i
rispettivi presidenti) previsto dall'art.88; il
nuovo art.88, infatti, avrebbe puntualizzato i casi
precisi nei quali il Presidente della Repubblica
avrebbe dovuto procedere obbligatoriamente allo
scioglimento della Camera dei Deputati (non sarebbe
stata più vincolante per il governo, invece,
la fiducia del senato, che sarebbe stato trasformato
in un “Senato delle Regioni”): dimissioni,
morte, impedimento permanente, richiesta del premier
o mozione di sfiducia. In tutti questi casi, il
Capo dello Stato sarebbe stato obbligato allo scioglimento
della Camera, a meno che la vecchia maggioranza
(e non un'altra, ponendo così un implicito
vincolo di mandato ai deputati) non nomini un nuovo
Primo Ministro entro venti giorni: anche in questo
caso, inoltre, il Capo dello Stato avrebbe avuto
l'obbligo di ratificare tale scelta. Al Presidente
della Repubblica sarebbe stato sottratto, quindi,
anche il fondamentale potere di nomina del Presidente
del Consiglio (che, infatti, sarebbe stato ribattezzato
“Primo Ministro”) previsto dall'art.92.
Nella nuova formulazione di tale articolo, infatti,
“il Presidente della Repubblica, sulla base
dei risultati delle elezioni della Camera dei deputati,
nomina il Primo Ministro”. Per non porre dubbi
su tale obbligo da parte del Capo dello Stato, il
precedente capoverso avrebbe recitato: “La
candidatura alla carica di Primo ministro mediante
collegamento con i candidati ovvero con una o più
liste di candidati all’elezione della Camera
dei deputati, secondo modalità stabilite
dalla legge. La legge disciplina l’elezione
dei deputati in modo da favorire la formazione di
una maggioranza, collegata al candidato alla carica
di Primo ministro”. Infine, a conferma dell'intento
di rendere la maggioranza parlamentare ostaggio
del Primo Ministro, lo stesso art.92 avrebbe previsto
lo scioglimento della camera anche nel caso in cui
l'esecutivo avesse ottenuto la fiducia grazie ai
voti determinanti di deputati non appartenenti alla
maggioranza uscita dalle urne: si sarebbe stato,
pertanto, dell'unico Paese al mondo in cui un governo
che ottiene la fiducia dal Parlamento, sia pure
grazie ai voti di parlamentari prima facenti parte
dell'opposizione, sarebbe stato obbligato non soltanto
alle dimissioni, ma addirittura avrebbe vincolato
il Presidente della Repubblica allo scioglimento
delle Camere stesse. Lo scioglimento obbligato del
Parlamento avrebbe dunque reso quest'ultimo succube
del Primo Ministro, e le elezioni si sarebbero di
fatto trasformate in una sorta di referendum pro
o contro il capo di governo uscente. In conclusione,
il capo del governo avrebbe assunto con questa riforma
un potere autoritario che non avrebbe trovato più
nessuna limitazione né dal Presidente della
Repubblica, né dal Parlamento, bensì
soltanto dalla scadenza naturale della legislatura,
che sarebbe così divenuta l'ultima connotazione
democratica in un assetto istituzionale altrimenti
assolutamente dittatoriale.
Il corollario di questo progetto di riforma costituzionale,
è stato il varo di una nuova legge elettorale,
approvata anch'essa in fretta e furia a pochi mesi
dalla fine della legislatura, così come si
conviene ad ogni “legge truffa”, che
– pur reintroducendo il sistema elettorale
proporzionale, ma con liste bloccate – introduceva
anche un cospicuo premio di maggioranza, inserendosi
così nel solco della lunga e famigerata tradizione
inaugurata dalla legge Acerbo nel '23 e proseguita
dal tentativo fallito della legge truffa nel '53.
Battezzata sin da subito come una “porcata”
da parte di uno dei suoi stessi ideatori, il leghista
Calderoli, ed entrata quindi nel gergo politico
come “porcellum”, tale legge assegna
alla Camera dei Deputati un premio di maggioranza
per la coalizione di partiti che otteneva il maggior
numero di voti su base nazionale, corrispondente
a 340 seggi (escludendo quelli eletti all’estero),
senza che l'elettore possa però esprimere
una preferenza all'interno della lista votata. La
cosa paradossale, però, è che al Senato
la legge prevede l’assegnazione del premio
di maggioranza su base regionale, in ossequio al
dettato costituzionale che prescrive questo tipo
di obbligo alla Camera alta. E’ evidente,
pertanto, che per godere di un’ampia maggioranza
al Senato, ad una coalizione non è sufficiente
ottenere la maggioranza, ancorché relativa,
dei voti su base nazionale, ma dovrà anche
vincere all’interno di quasi tutte le regioni,
ciò che risulta piuttosto difficile, se si
tiene conto dell’eterogenea caratterizzazione
politica del territorio italiano. In caso contrario,
infatti, la coalizione vincente non potrà
che disporre di una risicata maggioranza, così
come è capitato alla coalizione di centro-sinistra
in occasione delle ultime elezioni politiche. Appare
comunque evidente che il “porcellum”
sarebbe stata una vera e propria truffa qualora
fosse stato approvato il progetto di riforma costituzionale
di cui s'è detto: infatti, al governo sarebbe
stata sufficiente la fiducia della Camera dei deputati,
la cui maggioranza sarebbe stata comunque blindata.
In ogni caso, rimane il fatto che il “porcellum”
ha introdotto nel sistema elettorale italiano un'aberrazione
– quella del premio di maggioranza –
che non trova eguali altrove se non nella stessa
storia politica italiana (per l'appunto, legge Acerbo
e legge truffa).
Si arriva così all'odierna situazione: essendo
stato bocciato dagli italiani l'eversivo disegno
di riforma costituzionale presentato dal governo
Berlusconi, appare evidente la necessità
di cambiare l'attuale legge elettorale, sia per
la truffaldina assegnazione del premio di maggioranza,
sia perché evidentemente il “porcellum”
creerebbe molto spesso un senato con maggioranze
risicate, quale che sia l'effettivo esito elettorale.
Dopo anni di sbornia maggioritaria, in effetti,
alcune forze politiche hanno finalmente cominciato
a proporre soluzioni più adeguate ad una
democrazia di tipo consensuale, facendo riferimento
ai sistemi elettorali di alcuni di questi Paesi
(Germania e Spagna in particolare). Tuttavia, la
populistica e “truffaldina” tentazione
autoritaria – spacciata ancora una volta come
soluzione riformista e salvifica per le sorti del
Paese – stenta a soccombere dopo ormai tre
lustri di illusorie mistificazioni: così,
un nuovo comitato promotore ha raccolto le firme
per sottoporre agli elettori italiani tre nuovi
quesiti referendari. I primi due, in particolare,
se venissero approvati, garantirebbero lo stesso
premio di maggioranza in vigore oggi alla Camera
dei Deputati (340 seggi, ovvero circa il 54% del
totale) non alla coalizione vincente, ma semplicemente
alla lista che ottiene il maggior numero di voti.
Questo imporrebbe, dunque, che le forze politiche
si presentino in un unico listone, al fine di ottenere
più voti dello (o degli) schieramento avversario,
ma naturalmente la frammentazione non verrebbe ridotta,
poiché, una volta eletti, i parlamentari
di ciascun partito formerebbero i rispettivi gruppi
parlamentari. Ma ciò che è peggio,
è che tecnicamente se ogni partito presentasse
la sua lista, quella che ottiene la maggioranza
relativa dei voti, con qualsiasi percentuale di
voti, otterrebbe automaticamente il 54% dei seggi.
Benché tale premio sia sostanzialmente più
contenuto dei due terzi previsti dalla famigerata
legge Acerbo, non può tuttavia sfuggire che
almeno la legge Acerbo prevedeva che il premio sarebbe
scattato soltanto qualora la lista di maggioranza
relativa avesse superato il 25% dei voti; viceversa,
la legge che scaturirebbe dal referendum –
se passasse – assegnerebbe una netta maggioranza
di seggi alla forza politica di maggioranza, come
si è visto, con qualsiasi percentuale di
voti: ad esempio, facendo riferimento alle ultime
elezioni politiche del 2006, alla Camera la sola
lista “L'Ulivo” avrebbe ottenuto i 340
seggi con il 31,3% dei voti; al Senato, invece,
la lista “Forza Italia” avrebbe ottenuto
170 seggi, pur avendo conseguito soltanto poco più
del 23% dei suffragi espressi.
Per scongiurare l'ennesimo tentativo di introdurre
una legge truffa in Italia, pertanto, rimangono
ancora due opportunità: la prima è
che la Corte Costituzionale dichiari inammissibili
i tre quesiti referendari (sulla base di una pur
oscillante giurisprudenza in materia, che richiede,
però, che i quesiti siano omogenei, chiari
ed univoci6); la seconda è quella di confidare
nella diffidenza che a tratti sembra maturata nell'elettorato
italiano nei confronti di consultazioni referendarie
dal chiaro sapore populistico.
Note
1. LIJPHART A., Le democrazie contemporanee, Bologna,
Il Mulino, 1988, pag.33.
2. Cfr. GALLI G., I partiti politici italiani (1943-2004),
Milano, Rizzoli, 2004, pagg.7-8. La prima edizione
di questo volume risale al 1966, ed era intitolato,
per l'appunto, “Il bipartitismo imperfetto”.
3. L'indice messo a punto da Markku Laakso e Rein
Taagepera fornisce “l'effettivo numero di
partiti” presenti in un dato sistema partitico:
esso è pari al reciproco della sommatoria
dei quadrati delle proporzioni di seggi ottenute
da ciascun partito. Ad esempio, se ipoteticamente
in un'assemblea legislativa di 100 seggi avessero
ottenuto seggi in ugual misura soltanto i partiti
A e B (50 ciascuno), l'indice sarebbe uguale a 2.
Infatti, 50/100=0,5; il quadrato di 0,5 è
0,25, e 0,25+0,25=0,5; a questo punto, 1/0,5=2.
Cfr. LAAKSO M., TAAGEPERA R., “Effective”
Number of Parties: A Measure with Application to
Western Europe, in “Comparative Political
Studies”, 1979, n.1, pagg.3-27. Citato da
LIJPHART A., cit, pag.137.
4. Si veda a tal proposito il capitolo curato da
Cristina Barbieri, dal titolo “L'europeizzazione
del gabinetto ed il ruolo del Presidente del Consiglio”,
nel volume curato da FABBRINI S., L'europeizzazione
dell'Italia, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2003.
Si sostiene qui che i processi d'integrazione europea
da Maastricht in poi abbiano provocato una centralizzazione
dei gabinetti di governo. Benché si mantengano
delle riserve sul fatto che la causa principale
o unica di tale processo sia stata l'Europa, l'autrice
compie comunque un'accurata analisi comparata delle
prassi di governo di quattro esecutivi italiani:
Moro III ('66-'68), Craxi I ('83-'86), Ciampi ('93)
e D'Alema I ('98-'99). Se ne conclude che i primi
due si differenziano dai secondi due (più
che i primi due tra loro ed i secondi due tra loro)
per due caratteristiche di fondo: 1) i secondi hanno
ricercato in misura nettamente maggiore la propria
autonomia di azione al di fuori dell’esecutivo
stesso; 2) mentre nei primi prevaleva la politics,
ovvero “attività di governo volte alla
gestione ed al contenimento delle istanze di strategia
partitica”, nei secondi prevalevano le policies,
ovvero “attività di governo volte alla
formulazione di ed all’attenzione ai processi
di decisione delle politiche pubbliche che non siano
innervate dalla lotta per il potere”: quindi
dal fare in senso tecnocratico e non più
politico.
5. Si legga a tal proposito il bel saggio di Anna
Leander e Stefano Guzzini dal titolo “Economic
and Monetary Union and the Crisis of European Social
Contracts”, in MINKKINEN P, PATOMAKI H. (a
cura di), The politics of Economic and Monetary
Union, Kluwer Academic Publishers, 1997
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