In “Città Panico”, edito in Italia da Raffaello Cortina nel 2004, Paul Virilio, traccia una sorta di reportage della catastrofe: dalla distruzione delle Torri gemelle ai bombardamenti iracheni, dai black out nelle metropoli occidentali alle devastazioni portate dagli uragani. In realtà, dal flusso potente della sua scrittura, analitica e immaginifica al tempo stesso, affiorano i presagi di uno stato di allerta permanente oggi generalizzato a tutto il pianeta.
Il ragionamento di Virilio è facile da riassumere: nell’epoca in cui la velocità del progresso tecnologico e scientifico è sfuggita inesorabilmente a qualsiasi controllo politico, ecco che allora l’incidente, anzi la catastrofe, è diventata inevitabile. E a questo paradigma non sfugge certamente la città contemporanea, che Virilio definisce “la più grande catastrofe del ventesimo secolo”.
“All’iperconcentrazione delle megalopoli si aggiunge non solo l’iperterrorismo di massa, ma anche una delinquenza panica che riconduce la specie umana alla danza di morte delle origini e la città torna a essere una cittadella – in altre parole – un bersaglio per tutti i terrori, domestici o strategici”. Ed è proprio in queste “città atrofizzate che si credono il centro del mondo” che Virilio individua lo “spazio critico” della cosiddetta mondializzazione economica, dove la crescente velocità dei mezzi di comunicazione ha vanificato la vecchia idea della sovranità territoriale come fondamento dello stato di diritto: “il mondo degli affari, come quello della guerra, si ritrova allora in condizioni di assenza di gravità, nell’attesa angosciante del grande incidente, di questo crac globale che non mancherà di prodursi un giorno o l’altro”. Nell’osservare la continua accelerazione delle reti e dei mezzi di comunicazione, Virilio arriva così a parlare esplicitamente di un “crepuscolo dei luoghi”, perché è soprattutto la crescente velocità degli spostamenti che ha divorato i luoghi, le coordinate territoriali e ogni altro riferimento di posizione: “le distanze si sono annullate e gli intervalli di spazio e tempo sono scomparsi nella progressiva desertificazione e miniaturizzazione del mondo”. Virilio spinge questa suggestione quasi sino al paradosso: “Dopo essere riuscita a miniaturizzare gli oggetti, le macchine, i motori, la tecnica ha infine raggiunto i propri scopi miniaturizzando i tragitti, i confini del mondo”.
Ecco allora il problema, il punto di crisi dell’epoca globalizzata in cui viviamo: se ai tempi di Cesare, “la più grande gloria dell’Impero era di fare delle proprie frontiere un vasto deserto” oggi, invece, “il deserto in questione non si situa più in periferia – lungo il limes - ma intra muros, ovvero nel centro delle metropoli”. Le bombe dei kamikaze, allora, non uccidono più soltanto alla periferia dell’impero, in Iraq, Israele, Afghanistan, ma colpiscono anche nel centro delle città occidentali, tra i grattacieli, nelle stazioni della metropolitana e alle fermate degli autobus. Il confine globale che segna la frattura tra i popoli del mondo, che divide il pianeta tra nord e sud, attraversa adesso il cuore delle città.
Virilio osserva infatti che ormai “le frontiere dello Stato americano passano proprio all’interno delle metropoli del ventunesimo secolo, con le loro gangs, le loro milizie, i loro terroristi di cui nessuna guerra classica potrà liberarci”. Virilio porta ad esempio l’impiego che gli Stati Uniti fanno della loro guardia nazionale: “specializzata nella lotta contro le conseguenze delle catastrofi naturali, l’unità sembra a proprio agio nella periferia della capitale irachena, esattamente come negli slums americani, in mezzo a civili abbandonati al saccheggio e a violenze di tutti i generi”. Aggiungiamo allora che, proprio in questi mesi, la guardia nazionale si trova a proprio agio nella periferia di New Orleans come nei villaggi iracheni controllati da Al Zarkawi rivelando come, nell’immediatezza di un mondo senza più distanze, lo stato di emergenza si è ormai generalizzato. In realtà, l’iperterrorismo di cui parla Virilio è tale perché completamente deterritorializzato: per distruggere non ha nemmeno bisogno della massa d’urto di un esercito di divisioni blindate e il suo sistema di armi, del resto, consiste nell’insieme dei mezzi di comunicazione di massa rivolti contro l’avversario.
L’INFOWAR descritta in “Città panico” è una vera e propria guerra al reale, in cui l’arma di comunicazione di massa è strategicamente superiore all’arma di distruzione di massa. Di colpo a prevalere è l’informazione e la sua velocità di comunicazione istantanea da cui nasce il movimento panico che sconvolge il nostro senso dell’orientamento e, in altre parole, la nostra stessa percezione del mondo. Paul Virilio scrive in proposito: “Ormai, con la rivoluzione della comunicazione audiovisiva, assistiamo (in diretta) ai disturbi della percezione stroboscopia dell’informazione; di qui la confusione non solo delle nostre immagini oculari, ma soprattutto delle nostre immagini mentali”. In proposito, Virilio cita le parole di George Bush nell’aprile del 2003: “Per una combinazione di strategie immaginative e di tecnologie avanzate ridefiniamo la guerra sulle nostre basi”. Ma se la definitiva disgregazione dei grandi blocchi geopolitici ha comportato nei fatti la crisi dello Stato-nazione, il ripiegamento tattico sulle metropoli è stato altrettanto illusorio, confermato dalla riapparizione delle città-stato cintate e militarizzate come fortezze. Ne sono un esempio gli Stati Uniti che, con il pretesto della paura e dell’insicurezza sociale, vedono oggi decine di milioni di cittadini reclusi nelle cosiddette gated comunities, sobborghi residenziali blindati, protetti da cinte di telecamere e guardiani armati. E sempre Virilio osserva come ciò valga ugualmente anche per il continente latinoamericano, dove le gang devastano la città a San Paolo come a Bogotà o Rio de Janiero, quando non lo fanno altrimenti gli squadroni della morte, i gruppi paramilitari o di “forze armate”, svelando il “totale caos del vecchio diritto di cittadinanza” e confermando “l’emergere di una cinta, di un campo trincerato, di uno stato poliziesco dove le forze dell’ordine sono privatizzate come lo sono state, una dopo l’altra, le imprese pubbliche”. Sintomi questi della regressione patologica della città, dove la cosmopolis, la città aperta di ieri, ha ceduto il passo alla claustropolis caratterizzata dai tratti della chiusura e dell’esclusione. Il libro, già dopo gli attentati di Londra della scorsa estate e della catastrofe di New Orleans, appariva di notevole ed evidente interesse. In realtà, il testo propone ed approfondisce anche ulteriori aspetti che ritornano di immediata attualità: soprattutto riguardanti certe strategie comunicative ed emozionali dell’attuale politica spettacolo (anzi dello “spettacolo della politica”).
Non a caso, Virilio parla e definisce l’idea di una nuova democrazia dell’emozione: “dopo i danni della democrazia d’opinione – che sostituirebbe la democrazia rappresentativa dei partiti politici – e i deliri della politica spettacolo, si immaginano facilmente quelli procurati da questa democrazia di emozione pubblica che rischia di dissolvere come l’acido, l’opinione pubblica, a beneficio di un’emozione collettivistica istantanea di cui abusano tanto i predicatori populisti, quanto i commentatori sportivi o gli animatori di rave party”. Come non pensare allora agli scenari di “miseria, terrore e morte” evocati da Berlusconi e dai suoi Berluscones dell’ultima campagna elettorale. Una campagna giocata in gran parte per suscitare paura e ansia. Perchè sempre secondo il filosofo francese, dopo la standardizzazione dell’opinione pubblica, l’omologazione dei consumi e più in generale della cultura, entriamo nell’era della “sincronizzazione dell’emozione collettiva”, in cui “il movimento panico diventa l’accelerazione della realtà che distrugge il nostro senso dell’orientamento – in altre parole la nostra visione del mondo”.
Francesco Scalone