Un anno sull’Altipiano è un libro incredibilmente bello. Chi ha interesse a conoscere l’assurda tragedia della grande guerra non può permettersi di non leggere il romanzo di Emilio Lussu. Per amare la pace non c’è bisogno di particolari esperienze cristiane o no-global, è sufficiente leggere gli autori giusti che hanno vissuto sulla propria pelle e poi raccontato quell’evento, o meglio quell’orrore, che è la guerra. Terminata la lettura di questo capolavoro letterario si resta turbati dagli avvenimenti che vi sono narrati, storie semplici ma che sconvolgono grazie a una scrittura leggera che avvolge l’intera opera di una luce malinconica.
Nonostante le abbia vissute in prima persona, Lussu non lascia mai trasparire alcun giudizio morale di approvazione o condanna, sono i fatti a parlare con la loro crudele e assurda verità. Quattro lunghi anni vissuti dall’autore in prima linea sul fronte carsico e successivamente sull’altipiano di Asiago. Anni drammatici passati continuamente in trincea a pochi metri dal nemico e a stretto contatto con la morte, sempre pronti a lanciare, sotto la guida di comandanti inetti e grotteschi, inutili e sanguinosi assalti. Nel libro viene narrato un solo anno di guerra che va dal giugno 1916 al luglio 1917.
Lussu racconta le vicende della Brigata Sassari a cui lo stesso autore apparteneva. Eppure questo non si può definire come un libro esclusivamente di guerra. Vi è raccontato l’uomo che in una situazione limite, come la guerra di trincea, mostra tutti i lati negativi e i suoi contrari, portati all’ennesima potenza, da una quasi stupida crudeltà a mirabili slanci di generosità e altruismo. Il tutto sotto la scure di un destino che appare, pagina dopo pagina, non glorioso ma ogni volta sempre più ingiusto, perché procurato da militari imbelli e politici opportunisti (per citarne solo due, D’Annunzio e Mussolini). Numerose sono le immagini che si fissano nella mente del lettore. Personalmente mi ha sconvolto quella relativa a un attacco nemico. Lussu racconta che durante un assalto, prima di focalizzare la vista dei singoli soldati, si percepiva già il puzzo di cognac che gli austriaci emanavano e che ammorbava l’aria tutt’intorno. E questa può essere la metafora emblematica della prima grande guerra: il cognac. Liquore che veniva versato in grandi quantità ai fanti italiani e austriaci tutte le volte che si doveva andare all’assalto all’arma bianca e che nella gran parte dei casi significava il viatico a miglior vita. Metafora dunque si diceva: per fare la guerra bisogna essere ubriachi… Dello stesso tenore è Niente di nuovo sul fronte occidentale (Im Westen nichts Neues). Nel libro di Erich Maria Remarque si narrano le vicende relative al fronte franco-tedesco. Come scrive l’autore, il suo libro non vuole essere un atto di denuncia ma solo “il tentativo di raffigurare una generazione la quale – anche se sfuggì alle granate – venne distrutta dalla guerra”. Scritto anch’esso con tratti di mirabile poesia, Remarque incarna l’uomo che, uscito indenne fisicamente dalla guerra, fino al 1927 non riesce a scrivere una riga perché ancora schiantato dagli orrori che non abbandoneranno mai la sua mente. Con l’avvento del nazismo in Germania nel 1933, il libro di Remarque viene pubblicamente bruciato come esempio di scrittura degenerata.
Prologo di ciò che accadrà nel 1938 quando allo stesso autore i nazisti toglieranno la cittadinanza tedesca. Nel libro di Remarque l’uomo si riconosce sempre come tale, mai viene trasfigurato in un eroe che si fonde con l’acciaio della modernità e si immortala nell’azione di guerra esteticamente bella, rischiosa e fine a se stessa, come accadrà nel libro di Junger. Ne è una prova il racconto dell’episodio in cui l’autore si ritrova sperduto tra le linee nemiche in una enorme buca di granata con i francesi che corrono all’assalto sopra di lui. Appena sente un tonfo e il rotolare di un corpo egli si avventa come una belva sul malcapitato affondando i colpi con la baionetta secondo la ferrea regola della guerra o lui o io. Il francese non muore subito ma comincia a rantolare e lo farà per tutta la notte e il giorno seguente con Remarque che rischia di impazzire nella buca insieme e di fronte al lento disvelarsi del nemico in un essere umano. Alla fine non resisterà all’idea di scoprire l’identità di quell’uomo e assieme all’identificazione attraverso un nome e un cognome troverà lettere, foto e l’assurda insensatezza di quel mattatoio. Questo è forse il momento più alto, quasi lirico, di un romanzo che quando uscì sconvolse l’Europa e che ancora oggi lascia al lettore il sapore amaro di quella tragedia che diede inizio al secolo breve di Hobsbawniana memoria. Tutt’altro destino nella Germania hitleriana ebbe il libro di Ernst Junger Nelle tempeste d’acciaio (In Stahlgewittern).
Come viene scritto nell’introduzione, il suo comportamento in prima linea lo rese leggendario. Venne ferito ben quattordici volte e ricevette i più alti riconoscimenti. Esponente della destra reazionaria weimariana, Junger tentò di conciliare nei suoi numerosi e successivi scritti la politica della destra, tradizionalmente antimodernista, con la progressiva, inarrestabile ed estraniante espansione della tecnica. Nelle tempeste d’acciaio è un libro che non si può definire militarista, ma che certamente esalta la guerra di trincea come virtù purificatrice e glorificatrice di una vita profondamente comunitaria, quasi tribale. La vita dell’uomo in guerra è per Junger sempre spettacolare e si risolve in ogni azione, sia essa anche sanguinosa, come puro atto estetico. Sembra quasi incredibile osservare come la tradizione conservatrice tedesca, che vedeva nell'affermazione della tecnica un nemico da contrastare tanto quanto il propagarsi delle idee comuniste, trovi invece in Junger un ribaltamento teorico. La tecnica si fonde in unico corpo fatto di volontà e violenza, "la poesia dell'acciaio" come l'autore la definisce. Il mondo borghese è per Junger ormai corrotto, atomistico, generatore di sentimenti individualistici e troppo vincolato alla prassi dettata esclusivamente dalla ragione che allontana e distrugge quella dimensione romantica e quello spirito guerriero che la tradizione germanica da secoli immutabilmente incarnava. Solo con la tecnica la bellezza pare allo scrittore tedesco riconciliarsi con il mondo grazie alla sua fascinosa precisione e alla "meravigliosa" potenza distruttiva e salvifica che da essa si dipana. Per questo ho voluto associare a due libri per così dire pacifisti, che prendono in odio la guerra, un libro – quello di Junger – che invece trae dall’esperienza bellica una filosofia di vita e di organizzazione sociale profondamente antitetica e decisamente reazionaria. Solo così sarà più chiaro al lettore comprendere i meccanismi psicologici e l’evolversi delle tensioni sociali e culturali che portarono sia in Italia che in Germania all’affermazione di quei fenomeni politici che vanno sotto il nome di “fascismi”.
Fabrizio Simoncini