Il diritto naturale classico, che è stato fondato da Hugo Grotius nel XVI secolo, immaginava la guerra come una “normalità” nelle relazioni internazionali. Il suo concetto regolava le condizioni giuste (modo di dichiarazione ecc.), i mezzi giusti e il giusto comportamento dopo la sua fine. Questa idea prevedeva una guerra che poteva essere fatta da entrambi i contendenti in una maniera giusta.
Le esperienze con la prima e finalmente con la seconda guerra mondiale hanno cambiato questa percezione in una maniera fondamentale. Nel 1928 il patto tra Kellogg e Briand, i ministri esteri degli Stati Uniti e la Francia, fissava per la prima volta a livello internazionale la messa al bando della guerra come mezzo politico. La Carta delle Nazione Unite nel 1945 la definiva come “il flagello dell'umanità”.
Tuttavia, questa presa di coscienza e dichiarazione di intenti non ha creato in alcun modo un mondo pacifico. Né direttamente dopo la seconda guerra mondiale né ai tempi nostri le guerre sono svanite. Benché ci sia una proscrizione della guerra e a volte si veda una gran massa in strada che manifesta la sua volontà pacifica, come all’inizio dell' ultimo attacco statunitense all'Iraq nel 2003, i governi democratici possono mobilizzare anche un sostegno per le loro attività bellicose. In altre parole: non si vede solo una volontà per la pace, ma anche la disposizione mentale e naturalmente materiale a fare la guerra.
Questa disposizione non è limitata ad una piccola classe politica, come si pensava ai tempi dell’assolutismo europeo, dove i monarchi o la piccola classe degli aristocratici decisero per una guerra senza il consenso del popolo. Oggi si vede che anche negli stati democratici il popolo, oppure la sua maggioranza, possono essere convinti della necessità o legittimità di un impegno militare.
Le vittorie elettorali di Merkel in Germania, di Blair in Inghilterra e soprattutto di Bush negli Stati Uniti dimostravano che una politica d’intervento militare può convincere una maggioranza alle urne. Ancora di più: la possibilità dei governi del West - “avanguardia nella lotta per la democrazia e i diritti umani” - di spendere una gran parte del loro prodotto nazionale per le forze armate, la sua notevole capacità di mobilitazione delle risorse personali (servizio militare) oppure la cultura del riconoscimento del servizio militare (che sta cambiando), dimostra l’ampia accettazione e rispetto degli affari militari.
Ma questa accettazione è senza nessuna ragione? L'espressione “guerra giusta” è già un paradosso in sé? I sostenitori di questo tipo di guerre -espliciti o non espliciti- sono forse ciechi? Sono stupidi? O sono senza volontà propria – solo uno strumento per gli interessi dei pochi?
In seguito voglio analizzare qualche aspetto delle ragioni che sottendono alla legittimazione della guerra. Con questo tema non faccio una analisi politica delle “cause nascoste” o dei “veri motivi” degli attori decisivi. Mi interessano piuttosto le categorie morali con le quali si giudica la guerra. E' chiaro, però, che queste categorie devono rendere conto dei fatti. Tuttavia non si possono ridurre le une agli altri.
Tesi uno: la “guerra giusta” è pensabile. Questo vuol dire che ci sono delle ragioni e delle condizioni che possono giustificare l’uso delle armi al livello internazionale.
Ad un primo sguardo l' espressione “guerra giusta” sembra essere un paradosso. Una situazione di giustizia dovrebbe essere una situazione pacifica. Non “la ragione del più forte”, ma il riconoscimento reciproco regolerebbe le relazioni tra le persone. Ognuno e ognuna venerebbero rispettati come esseri con propri bisogni e desideri. E l’unico limite alla propria libertà di esprimersi e di realizzare i propri interessi dovrebbe essere la libertà degli altri. I conflitti andrebbero risolti in un quadro di argomentazione e consenso. La violenza o la forza invece non generano comprensione e rispetto, ma solo sottomissione, ciò vuol dire non una situazione morale stabile, ma una tregua precaria.
Questo concetto ideale indica la direzione di ogni morale universalista. Però la realtà sociale è caratterizzata dagli squilibri di potenza e anche dal disprezzo tra gli esseri umani. I sentimenti e le idee morali sono solo degli imperativi, formulano un dovere non un essere, vuol dire che c’è la possibilità di agire in un modo diverso. Per il mio discorso non importa a questo punto la causa “del male”. Ciò che conta è l'affermazione dei diritti comuni di ogni essere umano e la realtà delle loro lesioni.
Secondo me, si può legittimare l’uso della forza militare per la realizzazione di diritti umani in analogia alla legittimazione del potere dello stato civile. Una sua legittimazione classica si trova nell’opera Kantiana. Kant dice che:
“un’azione è giusta, quando per mezzo di essa, o secondo la sua massima, la libertà dell’arbitrio di uno può sussistere con la libertà di ogni altro, secondo una legge universale.”
Per garantire questa legge morale universale si necessita di una forza superiore, neutrale, cioè la forza statale. L’uso della forza verso i suoi cittadini e cittadine può essere giustificato in questo modello solo attraverso l’idea della garanzia della libertà dell’arbitrio dell'individuo. Si deve aggiungere, però, che nella dimensione sociale non conta solo la libertà formale davanti alla legge, ma anche le possibilità materiali di realizzare la propria libertà.
In questo senso l’uso legittimo della forza attraverso lo stato (e deve essere distinto l’uso legittimo dall’uso legale) non è un ostacolo o una restrizione della libertà ma, al contrario, una negazione o una eliminazione di un ostacolo per la libertà.
Nel caso di un intervento umanitario il significato è questo: riguardo ai fatti dei massacri, delle deportazioni e degli altri fenomeni della guerra come la fame, le malattie e le torture, un uso delle forze armate per impedirli e per garantire i diritti fondamentali appare come una negazione di un ostacolo per la libertà o per i diritti umani. In altre parole: non sembra esserci differenza tra una pallottola o un missile sparati da un combattente di un esercito imperialista o da un soldato dei caschi blu. I risultati sono gli stessi: distruzione, mutilazione, morte. C’è, però, una differenza sostanziale: l’una è una lesione dei diritti umani, mentre l’altra è (o almeno vorrebbe essere) la realizzazione o il tentativo di garantire diritti umani.
La conclusione è che un intervento umanitario può essere una guerra giusta, se è intentato come un intervento esterno che vuole garantire i diritti umani. Secondo me questa non è solo una legittimazione, ma anche un dovere morale per un intervento .
Si deve aggiungere che la legittimazione dell’intervento umanitario dipende anche dalla adeguatezza dei mezzi usati e dalla sua prospettiva di successo. Per questo non ha senso rispondere a una deportazione della popolazione di un paesino con il bombardamento di tutto lo stato, oppure alla rimozione militare di un regime che tormenta e massacra parte della sua popolazione con la distruzione completa di una società attraverso una guerra civile con milioni di vittime.
Tesi due: ci sono dei problemi gravi alla applicazione dei criteri morali.
Può sembrare che l giudizio sulla questione della legittimazione di una guerra incombente o reale sia facile. Si vede, però, che la discussione su questa questione può essere molto lunga e difficile. Spesso c'è bisogno di un grande dibattito e di molto tempo per riconoscere quali motivi, interessi e scopi hanno determinato una guerra e chi è stato il colpevole. Per esempio la questione dell'inizio della Prima Guerra Mondiale è stata discussa in Germania per molto tempo. E lo storico Fritz Fischer ha provocato un grande dibattito tra gli storici tedeschi ma anche nella società negli anni 50, cioè dopo 40 anni, quando ha affermato che la colpa per lo scoppio della guerra fosse solo del governo tedesco.
Questo è un esempio per la carenza di informazioni che c’è a vari livelli.
È ovvio che il grado di informazione di un governo è normalmente molto più alto di gran parte della popolazione. Anche una lettura regolare dei giornali e riviste informative trasmette solo una parte del sapere del governo, con tutti i suoi esperti e professionisti. Inoltre il giudizio adeguato della scena politica ha bisogno di esperienza e anche di un sapere storico che permettano una valutazione confacente.
Però anche gli attori politici non agiscono in una situazione di informazione completa. Sono dipendenti da altri esperti e molti giudizi sui fatti o le situazioni nelle altre regioni del mondo, che contengono per la maggior parte valutazioni e calcoli approssimativi invece di un sapere sicuro.
Per l'opinione pubblica il problema viene aggravato dalla “imperfezione” dei mass media. Così l'attenzione del pubblico democratico può essere influenzata nella sua limitata percezione. Alcune immagini crudeli e qualche commentario suggestivo ripetuti mille volte possono creare l'idea di una “nuova Auschwitz” o di un altro genocidio che giustificherebbe qualunque mezzo di forza.
I limiti dell'informazione aumentano quando si vogliono conoscere i motivi veri degli attori politici. Come sapeva già Machiavelli le bugie sono un mezzo utile e diffuso nella politica: una cosa è ciò che dicono gli attori all'opinione pubblica, un'altra sono i loro veri motivi. O come dice Luhmann, l'ipocrisia è il mezzo per una “pubblicità dell'approvazione”. Ciononostante la realtà dell'inganno non è la prova per la amoralità completa della politica. Anzi, il fatto che la politica debba giustificarsi e che ciò le costi molto tempo e fatica, dimostra l'importanza dei sentimenti morali.
Un altro punto già notato è il problema di valutare la probabilità del successo e gli effetti possibili. Per azioni di un certo livello non si possono prevedere tutti gli effetti con sicurezza. Un esempio è l'ultima guerra degli Stati Uniti contro l'Iraq. Si può affermare che i piani del Pentagono non prevedevano né un crollo completo dello Stato dopo la sconfitta di Saddam Hussein, tantomeno l'attuale guerra civile. (Credo che il giudizio sulla politica di Bush sarebbe ben diverso se solo egli fosse riuscito a fondare uno stato stabile.)
La contingenza del futuro non è solo un problema dell'amministrazione Bush. Per ogni intervento non si può dire con sicurezza se esso avrà successo oppure se peggiorerà soltanto le cose. In questo senso la guerra degli Stati Uniti contro la Germania Nazista è stata un successo, invece il suo intervento in Somalia non può essere considerato tale.
Tutti questi argomenti e limitazioni per il giudizio morale su una guerra non devono suscitare disperazione o cinismo. Non ci si deve e non ci si può astenere sul suo giudizio e non ci si può sottrarre alla propria responsabilità perché anche il non-agire causa degli effetti che possono significare la morte per migliaia di persone.
Questi argomenti non ci devono condurre ad emettere giudizi troppo affrettati. Forse ci spronano a un impegno più grande per trovare il giudizio adeguato e la buona decisione politica.
Tesi tre: Anche il diritto di autodifesa è una ragione per una guerra giusta. L'identità nazionale causa qualche confusione, però. Ella può essere superata con un concetto di giustizia internazionale che tiene conto anche delle dimensioni economiche, sociali e ambientali.
Senza dubbio c’è un diritto di autodifesa. Quando qualcuno mi attacca è mio diritto naturale difendermi. Posso anche scappare via oppure omettere la resistenza se l’aggressore mi sembra troppo forte o temo degli effetti più gravi. Ma se mi difendo con i mezzi adeguati nessuno può contestare che ci sia un mio diritto.
Ovviamente questo diritto vale anche per le entità collettive e anche la Carta delle Nazione Unite riconosce il diritto di di difesa per uno Stato. Una difficoltà di questa analogia dei diritti per un individuo e uno Stato è la soggettività particolare di quest'ultimo.
L'evidenza del diritto è data soltanto alla presenza di certe condizioni. Queste sono la chiara responsabilità della aggressione e la precedente assenza di relazioni tra le parti, ossia la mancanza di cause generanti conflitto. Per esempio: anche il rapporto di uno schiavo col suo padrone può essere tranquillo, pacifico e gran parte della storia umana dimostra che può essere anche legale. Però dal nostro punto di vista morale una ribellione dello schiavo non sarebbe stata un atto ingiusto, perché condanniamo lo stato di schiavitù.
Tra gli stati moderni le due condizioni, assenza di relazioni e chiara responsabilità, non ci sono sempre date. Questo fatto risulta, tra l’altro, dalle strutture economiche concrete e dal fenomeno della violenza strutturale.
Mi devo limitare solo a qualche appunto:
L'economia moderna è in gran parte una struttura globale. Ci sono tante interdipendenze per cui le economie nazionali dipendono eminentemente dagli avvenimenti fuori del loro territorio. La crisi economica mondiale degli anni 30, la crisi del petrolio negli anni 70 o il crollo della borsa in estremo oriente all'inizio del nostro millennio sono gli esempi più illustri di questo fatto. In questi casi abbiamo assistito al crollo di intere economie nazionali, oppure nei casi più fortunati, a danni estremamente gravi. Inflazione e impoverimento, perdita della fede per un buon avvenire, lotte sociali aperte, sono solo alcuni dei tanti risultati negativi di questa crisi.
I pochi esempi mostrano che gli interessi nazionali per una economia forte e stabile non rappresentano solo gli interessi concreti delle classe dominante ma di tutte le classi – anche se i rischi sono ben diversi. Perciò il benessere della popolazione dipende per gran parte dagli avvenimenti e sviluppi che si sottraggono all’influsso della sovranità di uno stato. Gli interessi nazionali – che non coincidono esclusivamente con gli interessi dei ricchi di guadagnare sempre di più – trascendono i confini dello stato e travalicano l'identità nazionale.
Le economie avanzate hanno bisogno di risorse come petrolio, gas, minerali metalliferi ecc. Molti stati, però, sono costrette a importarle dall'estero. Ogni atto sovrano dei paesi che detengono la proprietà delle materie prime può cambiare i prezzi delle risorse (per esempio attraverso la nazionalizzazione o la fondazione di un cartello – come l'OPEC) e influenzare fortemente le economie nazionali dei paesi industriali. In questo senso un aumento dei prezzi delle materie prime mediante un atto unilaterale ferisce gli interessi nazionali e il disturbo della consegna può essere interpretato come un attacco allo stato importatore. Questo è successo negli ultimi mesi quando la Russia ha chiuso per qualche giorno le sue pipelines al west. Il governo tedesco, e un gran parte della stampa, erano molto preoccupati da tale “dimostrazione di potere” e si parlava già di una aggressione di Putin. In altre parole, le aggressioni non hanno solo la forma militare e quasi tutti i conflitti hanno una storia fatta di provocazioni e di escalation. Si potrebbe dimostrare che il sistema capitalistico globale favorisce e provoca i conflitti tra gli stati sovrani.
Un altro punto che confonde la semplice percezione di un aggressore è il fatto della violenza strutturale. Come nell'esempio dello schiavo, che resiste legittimamente contro il suo padrone, ci sono delle strutture globali – anche legali – che causano molte vittime senza sparare alcun colpo. Alcuni esempi – sempre dalla sfera economica – sono le condizioni del mercato mondiale. Le sue regole vengono dettate dai paesi potenti a esclusivo vantaggio delle proprie economie nazionali. Non solo le enormi sovvenzioni per l'agricoltura presenti sia nella Unione Europea che negli Stati Uniti, ma anche le tasse sui prodotti di importazione proteggono i mercati dalle merci dei paesi in via di sviluppo, i quali sono costretti ad aprire i propri ai beni occidentali. Oppure le regole per i brevetti dei prodotti farmaceutici che impediscono la diffusione in massa e a un buon prezzo degli antidoti contro l'AIDS.
È ovvio che non solo i fucili ammazzano ma anche le leggi hanno questo potere.
Si potrebbe aumentare facilmente il numero degli esempi relativi alla violenza strutturale con cui lo stato stabilisce regole che provocano danni enormi. Le relazioni fra i sessi, le cause del cambiamento climatico e altre fattori economici feriscono spesso i diritti umani fondamentali senza che le stesse siano riconosciute come aggressioni violente.
Dopo questo ragionamento abbozzato voglio formulare i risultati e qualche conseguenza che possiamo poi discutere più tardi. Tali risultati si dividono in due tipologie: filosofici e politici.
Per la parte filosofica volevo dire che il termine “guerra giusta” non è un paradosso. Si può pensare l'intervento umanitario come la realizzazione dei diritti umani anche se questo intervento significa molte vittime – sia civili che militari. Non dico che l'azione militare è l'unico modo di intervenire o di pacificare (una parola che non mi piace per via della sua storia). Finalmente, pero, in alcuni casi l'uso delle forze armate – e in particolare delle truppe di terra - può essere l'ultimo e l'unico mezzo per fermare i più gravi e terribili conseguenze. Non si deve dimenticare in questo contesto che anche la diplomazia e il multilateralismo si rivolgono a un potere che hai alle spalle.
Con questi ragionamenti voglio contrastare quella sorta di pacifismo, che possiamo definire “ingenuo”, il quale sostiene un ideale morale per certi versi condivisibile, ma che però non ha a disposizione un concetto, o una pratica politica, generalizzabile. In qualche misura sono anche contrario a una lettura marxista che pensa la politica come una sfera dove la morale non è una forza determinante ma viene solo determinata.
Questo ragionamento mi guida al prossimo punto. La concezione di un ordine morale – morale intesa in un senso enfatico – deve rendere conto anche degli aspetti economici, ambientali, culturali e sociali. Non è sufficiente pensare nelle categorie “vecchie” di una identità fissa e distinta. Una posizione morale – o un concetto di giustizia internazionale – deve criticare lo status quo riflettendo alla base l'idea di un'umanità universale ed egalitaria. A questo punto si deve porre la domanda se gli stati moderni siano in grado di realizzare tale concetto senza cambiamenti essenziali.
Sul piano politico pongo l'accento sulla importanza di un dibatto pubblico. Vorrei fare rifermento ancora una volta a Kant. Egli credeva negli effetti morali di una discussione pubblica. Secondo il suo pensiero, i politici quando devono giustificarsi pubblicamente, sono costretti a usare argomenti capaci di creare consenso. Kant era convinto che questo fatto sarebbe già stato sufficiente a controllare e regolare la politica in una maniera sempre più morale in quanto il popolo non può agire contro se stesso.
Naturalmente si può non condividere la sua opinione. Kant era una autore che rappresentava l'ottimismo di una borghesia nascente. A tale merito le nostre esperienze sembrano porci più dubbi che certezze. Non solo la concentrazione dei mass media in poche mani, la plutocrazia nella sfera pubblica, dove si possono lanciare delle iniziative costose al fine di creare e diffondere un pensiero anti-illuminista, ma anche le dinamiche nascoste che favoriscono l'opinione comune della gente – quali i pregiudizi, le verità solo accennate che si trasformano in falsità. Tutto questo potrebbe farci disperare, e spesso così accade. Cinismo, ignoranza e il ritiro nel proprio ambito privato ne sono le conseguenze.
Per via di queste critiche, però, non si può abbandonare il concetto ideale di costituzione e strutturazione della opinione pubblica . Si deve invece comprendere che questo ideale non è uno scopo che si realizza da se stesso attraverso una necessità storica – come pensava ancora Kant – ma questa deve diventare la nostra sfida: lavorare per un ideale anche se non è realizzabile completamente. In questo senso l'opinione pubblica dovrebbe essere uno spazio per riflettere, discutere e controllare gli affari politici, uno spazio dove si costituisce il consenso ma anche la critica, uno spazio finalmente essenziale per la vita e la coesione delle società democratiche.
In questo spazio la discussione sulla questione della guerra giusta trova il suo luogo. Ed è anche qui che la morale sviluppa la sua forza. Spero che il mio discorso abbia dato indicazioni in merito alla necessità di concepire un concetto sempre più ampio di giustizia internazionale e abbia anche spiegato il dovere di confrontarsi con i problemi morali nel contesto della guerra.