L’esordire con un titolo così altisonante, riferendosi a un concetto filosofico certamente nobile ma per molti oscuro quale è il termine di derivazione greca epistemologia, significa probabilmente condannarsi a non essere letto. Un rischio quest’ultimo che chi scrive deve sempre mettere in conto, ma che aggiungendo a fianco della parola suddetta l’aggettivo triadica pare divenire certezza. Voglio invece invitare il lettore a non lasciarsi sopraffare dalla paura di trovarsi a che fare con contenuti totalmente alieni da se stessi e dai propri interessi, ma di continuare nella lettura con generoso slancio. Questa premessa può apparire futile e affettatamente moralistica ma non è priva di senso. Una delle difficoltà più grandi che le società di oggi manifestano è proprio quella che a fronte di una continua sovraesposizione di informazione assistiamo a una lenta incapacità sia di approfondire che di farsi carico della fatica che la vera conoscenza comporta. Dunque riscoprire il significato antico del termine greco epistemologia, e l’autentica forza del suo contenuto teorico che sta alla base dell’idea stessa di scienza, non può non interessare tutti coloro che si interrogano sulla eticità di ogni approccio scientifico e in definitiva sul vero senso dell’agire umano. Rimettere in gioco questi concetti significa riaprire l’utile diatriba sul rapporto che intercorre tra la responsabilità di ogni soggetto e la dimensione sociale in cui il suo agire si contestualizza.
Per epistemologia s’intende lo studio dei criteri generali che decidono sulla possibilità di fare distinzione tra quello che può ritenersi un giudizio di tipo scientifico (episteme) da quello di una mera opinione (doxa), in sostanza mira a individuare i fondamenti e i limiti di validità di ogni sapere. Il termine tradotto alla lettera sta a cavallo tra due significati precisi. Da un lato è sinonimo di teoria della conoscenza (gnoseologia) e dall’altro si riferisce alla filosofia della scienza. I due significati sono dunque fortemente legati fra loro e ciò non deve stupire in quanto ogni conoscenza, intesa nell’accezione moderna sia essa rivolta alla metafisica che alla matematica, non può prescindere dall’idea di un approccio che sia in sé scientifico. A questo proposito mi propongo di commentare, su segnalazione del Dott. Davide di Francia, l’intervento di Ettore Perrella nella giornata di studio “Gregorio Palamas e la ricerca di una nuova epistemologia” svoltosi a Venezia-Salonicco dal titolo “Verso un’epistemologia triadica”.
La tesi di fondo dell’articolo consiste nel tentativo di ricreare un rapporto su basi nuove, ma fondate nella storia secolare del pensiero filosofico, tra la ricerca scientifica e la riflessione etica attraverso la rilettura dei fondamenti della scienza a partire da Platone e Aristotele, passando per alcune intuizioni del teologo bizantino Gregorio Palamas (1296-1359) fino alla fenomenologia trascendentale di Edmund Husserl (1859-1938). In pratica si tratterebbe di ristabilire nell’ambito della scienza moderna, oggi esclusivamente pensata in un ambito logico e ontologico, di un riferimento all’atto (e quindi all’etica) in modo da rendere la scienza stessa non più diadica bensì triadica, cioè tenendo conto nella sua applicazione della logica (la ragione), dell’ontologia (il mondo) e dell’etica (l’atto).
Perrella si inoltra nella ricerca delle basi fondanti della scienza moderna che affonda le proprie radici in alcuni principi stabiliti dallo stesso Aristotele e rimasti immutati. Come del resto la stessa logica, anche la scienza si basa su presupposti assiomatici e dunque indimostrabili. Ma ciò che più importa a Perrella è sostenere che anche sulla questione dell’“uno” la concezione aristotelica ha prevalso su quella platonica semplificando i problemi in merito all’essenza e alla sua origine. Citando dall’articolo: “Per Aristotele un ente è uno perché ha un’essenza, mentre per Platone un ente ha un’essenza solo perché, in quanto uno, partecipa di quell’uno sovraessenziale che determina la sua essenza proprio perché assegna ad essa – come a qualunque altro ente – la sua unità.” E da qui che allora nascono i problemi o quantomeno i percorsi diversi che segneranno la storia della scienza e il suo rapporto con la filosofia. Ma citiamo ancora un altro passo dell’intervento: “…per Aristotele l’uno dipende dall’essenza, mentre per Platone è l’essenza a dipendere dall’uno.” Se infatti prevalesse l’idea di Platone che è l’essenza a dover fare i conti sempre e comunque con un qualcosa che la trascende e la determina di volta in volta, anche la scienza non potrebbe fare a meno di non occuparsene e ciò cambierebbe, e di molto, la prospettiva di ogni agire scientifico. Infatti Perrella sottolinea come: “…quella platonica, invece, pone direttamente il problema della fondazione della scienza, ma lo fa solo in un modo sfuggente, tanto che sembra aprire sulle prospettive d’una mistica della quale la scienza moderna ritiene non solo di potere, ma di dovere fare a meno…”.
Ed è qui che Perrella tocca il nodo cruciale, e decisamente attuale, su cui vale la pena soffermarsi. Parlare di “origine”, “essenza”, “Dio” nel pieno dispiegarsi della nostra civiltà dei consumi, dove ogni ritmo di vita si conforma alle esigenze del capitale, sembra macchiarsi di eresia. Solo perché si vuole affrontare queste tematiche, che nei fatti fanno parte del linguaggio profondo dell’animo umano, si viene tacciati di essere fuori dal mondo oppure, che è anche peggio, vicini alla Chiesa del Papa teologo Ratzinger, al quale solo è ormai concesso di discernere in merito e con giusta causa. E pensare che su quelle domande fondamentali è cresciuta l’intera civiltà occidentale segnando la propria storia e determinandone i tratti più caratteristici ed elevati. Intorno a questi problemi essenziali si sono formati non solo grandi filosofi e teologi ma anche l’intera società civile che da quelle analisi mutuava elementi di rottura contribuendo a fondare percorsi di emancipazione reali perché sostenuti da un pensiero rigoroso in continua evoluzione e strutturazione. Per fare un esempio, senza il “Discorso sul metodo” di Cartesio o l’“Etica” di Spinoza, che non eludevano certo quelle domande fondamentali ma a esse rispondevano in modo nuovo, nemmeno la borghesia europea, sospinta dal vento francese dei “lumi”, avrebbe trovato quella forza per imporsi e cambiare i destini dell’occidente. Non a caso Husserl sostiene, a questo proposito in un passo spettacolare per chiarezza e lucidità, come il Rinascimento in Europa tragga il suo spirito vitale e creatore da una rinnovata concezione della filosofia antica e in particolare da Platone: “Com’è noto, l’umanità europea attua durante il Rinascimento un rivolgimento rivoluzionario. Essa si rivolge contro i suoi precedenti modi di esistenza, quelli medievali, li svaluta ed esige di plasmare se stessa in piena libertà. Essa riscopre nell’umanità antica un modello esemplare. […] Che cosa considera essenziale dell’uomo antico? Nient’altro che la forma “filosofica” dell’esistenza: la capacità di dare liberamente a se stessa, a tutta la propria vita, regole fondate sulla pura ragione, tratte dalla filosofia. La prima cosa è la teoresi filosofica. Dev’essere messa in atto una considerazione razionale del mondo, libera dai vincoli del mito e della tradizione in generale, una conoscenza universale del mondo e dell’uomo che proceda in un’assoluta indipendenza dai pregiudizi – che giunga infine a conoscenza nel mondo stesso la ragione e la teleologia che vi si nascondono e il loro più alto principio: dio. La filosofia, in quanto teoria, non rende libero soltanto il filosofo, ma rende libero anche qualsiasi uomo che si sia formato sulla filosofia. All’autonomia teoretica succede quella pratica. Nell’ideale del Rinascimento l’uomo antico è quello che plasma se stesso esclusivamente in base alla libera ragione. Per il rinnovato “platonismo” ciò significa: occorre riplasmare non soltanto se stessi eticamente, ma anche l’intero mondo circostante, l’esistenza politica e sociale dell’umanità in base alla libera ragione, in base alle intellezioni di una filosofia universale”.
Eppure bisognerebbe interrogarsi sul perché oggi ogni aspetto della vita umana, dalla scienza al lavoro dal più banale evento quotidiano alle tendenze “culturali” dei mass media, abbia pressoché rimosso l’abitudine e l’interesse per quelle domande fondamentali, che non siano poste sotto quella forma di una melensa volgarizzazione da offrire a telespettatori svogliati e “telecomandati”. La stessa politica su questi temi non fa che schierarsi per esclusiva opportunità in un campo (quello del totale ossequio alla Dottrina della Chiesa cattolica) o nell’altro (il mero rifiuto pregiudiziale a qualsiasi tentativo di discussione) a seconda dei presunti vantaggi che ne potrebbe trarre piuttosto che per acquisire competenze o desiderio di conoscenza. Ma il bisogno resta e le numerose e inaspettate presenze, a ogni edizione del Festival filosofia di Modena, attestano la non ineludibilità dei temi di cui si va discorrendo.
Ma torniamo a Perrella. Che cos’è allora questo “uno” si domanda l’autore. Se l’essenza come afferma Platone è determinata dal sovraessenziale (cioè dall’uno) “sembra impossibile dire che cosa sia questo uno, perché tutte le parole che useremmo assegnerebbero ad esso un’essenza, tradendone la natura”. Non solo. Aristotele come si è detto afferma che la natura dell’ente è determinata dalla sua essenza e quindi è la stessa essenza attraverso precisi atti a stabilirne le caratteristiche proprie. La natura di questa impostazione porta a due immediate conseguenze. La prima consiste nel comprendere che per fare scienza “è sufficiente non alterare i dati evidenti forniti dall’osservazione delle cose e dal ragionamento”; la seconda che “quando questo criterio non è applicabile, come nel caso dei comportamenti umani (e quindi nel campo dell’etica), la scienza ha uno statuto totalmente diverso, perché presuppone una valutazione di tali comportamenti, la quale non fa parte della definizione ontologica e logica (i nostri atti, quindi, avrebbero una natura del tutto eterogenea rispetto a tutti gli altri oggetti del sapere, vale a dire a tutti gli altri enti)”.
Ed è qui che si apre una vera e propria contraddizione. Se infatti da un lato la logica diventa lo strumento per indagare l’ontologia e per ontologia si intende lo studio dell’essere nelle sue varie essenze (quindi del mondo), dall’altro “si distingue radicalmente la scienza – logica e ontologica – dalla morale, considerata identica all’etica”. Questa contrapposizione che ha i suoi prodromi in Aristotele si consolida in tutto il pensiero successivo oltre Kant. Se infatti gli atti sono le manifestazioni di ciascuna essenza che agisce in maniera preordinata ne deriva “che la scienza è scienza di assoluti e che l’assoluto (“Dio”)” – che possiamo anche chiamare uno – “non può essere oggetto di scienza perché non interviene nel mondo se non come un’ipotesi non necessaria.”
A questo punto risulta sancita la separazione fra una concezione etica (intesa come una riflessione a tutto tondo sull’agire umano), non tanto della scienza in senso stretto ma quanto del conoscere, e la logica e l’ontologia. Scrive Perrella: “Il mondo, in questo modo, è concepito al tempo stesso come un assoluto e come del tutto estraneo all’assoluto: di conseguenza esso è al tempo stesso divinizzato e privato di ogni principio sovramondano. In altri termini ci troviamo in un’idolatria nutrita di ateismo.” La scienza così impostata appare come “una forma contraddittoria di scetticismo (almeno sui propri principi) e lo scetticismo altro non è che l’ateismo in forma gnoseologica.” E allora per Perrella l’attuale “crisi delle scienze europee”, citando Husserl, “inizia molto prima del sorgere della scienza galileiana.”
Pensare a una suddivisione dei quattro campi classici del sapere quali la metafisica, l’ontologia, la logica e l’etica ha portato nel corso dei secoli a far sì che ciascuna disciplina, se così la possiamo definire, si sia lentamente specializzata in modo tale da escludere le altre dall’analisi intorno ai propri oggetti di indagine. Ma può la scienza, si chiede Perrella, non trattare minimamente il contenuto del proprio fondamento, dimenticando che la filosofia (la questione del fondamento è un tema prettamente filosofico), in origine, era nata per pensare l’uomo e le sue attività con un unico sguardo, con un’unica prospettiva visto che, per dirla alla Perrella, “le tre3 regioni della scienza non si differenziano in base alla natura dei loro oggetti, ma in base a quella del modo in cui li consideriamo”?
E’ difficile dare allora torto al ragionamento di Perrella che evidenzia come: “l’antitesi fra scienza e filosofia non solo è immotivata, ma finisce per falsificare lo stesso contenuto che diamo alla parola “scienza”. Senza nulla togliere alle radicali differenze di metodo fra le scienze esatte, quelle a torto o a ragione chiamate umane e la filosofia o la religione, non vi è nessun motivo per non interpretare queste differenze come articolazioni interne a un solo criterio di ragione, che si manifesta con varie riduzioni, ma senza nulla perdere della propria unità.”
E’ a questo punto dell’esposizione di Perrella che entra in gioco il pensiero di Gregorio Palamas e con lui tutta la tradizione che si rifà a Platone e al neoplatonismo. In sostanza ciò che si deve mettere in gioco è in quale modo una scienza deve essere fondata. E’ lo stesso Perrella ad avvertire che fare riferimento a Palamas, teologo del XIV secolo, può sembrare alquanto arcaizzante e poco utilizzabile ai fini di una scienza moderna, ma così non è. “Per Palamas – scrive Perrella – la sola scienza fondata è quella che tiene conto della necessaria relazione fra l’atto (sovraessenziale) e la natura (l’essenza).” Dunque il tema decisivo che si ritrova in Palamas, e che si vorrebbe attualizzare, è la funzione dell’atto come parte ineludibile di ogni ricerca scientifica, vale a dire l’impossibilità di prescindere dall’etica (intesa come dimensione dell’atto nella sua prospettiva), in un’epistemologia che si vuole ora triadica e non più diadica, cioè pensata esclusivamente su un piano logico e ontologico. A supporto di questa tesi Perrella chiama in causa Husserl il quale, ponendo con forza la fondazione trascendentale della scienza e in vista dei suoi trascorsi non potendo certamente essere tacciato di sospetta teologia, anche se in termini diversi pone lo stesso tema di Palamas. “Che cos’è il soggetto trascendentale – si chiede Perrella – da Cartesio a Husserl, se non la traccia, nell’ente, dell’atto di ragione nella fondazione del sapere?” E di conseguenza: “Nell’argomentazione trascendentale il “sum” (cioè l’essere n.d.a.) è dimostrato dall’evidenza inaggirabile del cogito, vale a dire dell’atto di pensare. In effetti, la verità di cui si tratta nella logica trascendentale non è prodotta soltanto dall’accordo fra l’intelletto e la cosa o fra la parola e l’ente, perché questo accordo non si produce che nell’atto di riconoscimento fondativo del sapere. In effetti è solo grazie a degli atti che il sapere prodotto dalla scienza può essere realmente quel sapere vivo che chiamiamo, a torto o a ragione, soggettivo. E, senza questa dimensione immediatamente etica, il sapere della scienza non potrebbe avere nessuna concretezza, quotidiana ed etica, per chi se ne occupa ogni giorno.”
Per dimostrare che l’elemento trascendentale non solo fonda ma è la prova stessa dell’impossibilità di scindere l’atto dal pensiero che ne interpreta il mondo, Perrella porta l’argomentazione della cosiddetta “Consequentia mirabilis” che consiste nella “prova con la quale, all’interno di un sistema logico, si dimostra che, “se, dalla negazione della proposizione A, si deduce A, allora A è vera””. Nell’intenzione dell’autore questa dimostrazione serve a evidenziare che qualsiasi approccio logico-formale viene “bucato”, cioè reso incoerente, dal fatto che comunque la logica stessa “deve essere necessariamente aperta, per un verso, agli enti rispetto ai quali sono formulate le proposizioni, per un altro, a un atto di negare o attribuire verità alle proposizioni stesse.” Dunque “è proprio l’atto di enunciare una negazione a dimostrare la verità di un’affermazione” e l’atto della negazione ha a che fare strettamente con l’enunciazione di molti principi di ragione. Infatti: “esistono principi di ragione che non possono essere negati senza negare, con questo, la loro negazione. E questa è appunto una prova, per niente assiomatica e totalmente autoevidente, di quegli stessi principi.”
L’articolo si conclude con la considerazione finale che “nessuna prova logica è tale se non perché fa emergere nella proposizione una verità che dipende al tempo stesso dall’ente, dalla parola e dall’atto, nella loro triadica unità”.
Dunque la partita non è così scontata e arcaicizzante come potrebbe apparire a una prima lettura. L’invito a considerare la scienza non come un motore autoregolantesi, ma come un elemento fondamentale al disvelamento dei fini ultimi dell’uomo e al miglioramento delle sue condizioni di vita non può che essere auspicabile. La deriva esclusivamente tecnicista che affermazioni del tipo “la scienza si fonda su principi assiomatici indimostrabili, nessuno dei quali è di natura etica”4, oltre a nascondere una visione positivistica della scienza, non fanno che riaffermare in senso forte quel pericolo che lo stesso Husserl denunciava nella Conferenza tenuta a Vienna il 7 maggio 1935, e ripetuta poi il 10 maggio a furor di popolo, che “le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto”. Lasciarsi abbagliare, come affermava sempre Husserl, dalla prosperità che le stesse scienze permettono al vivere quotidiano dell’uomo, non può servire da giustificazione per l’allontanamento da quei problemi che risultano fondamentali per la costituzione di soggettività autentiche, le quali non debbono dimenticare la propria origine, in primis il pensiero greco, né il senso ultimo che le deve guidare vale a dire la “ragione”, il logos, nella sua più alta accezione. Né si può dimenticare che una montante visione positivistica della scienza causò nel XIX secolo quel distacco definitivo “degli interrogativi specificatamente umani dal regno della scienza”5. Quella errata premessa positivistica, dopo la tragedia bellica della grande guerra, condusse al diffondersi in tutta l’Europa di un sentimento di rigetto di una scienza che sembrava sapesse teorizzare esclusivamente la totale subordinazione dell’uomo alla macchina. La povertà che si riversò su ingenti masse a seguito di una industrializzazione forzata e depauperante, la infuocata tempesta d’acciaio, per citare Ernst Junger, abbattutasi durante la guerra sui combattenti di entrambi i fronti furono dunque gli elementi rivelatori di una tecnica che con l’etica avrebbe avuto ben poco a che spartire. Le conseguenze che si ebbero sui destini delle popolazioni europee furono drammatici e alimentarono i fuochi di un pensiero forte, a fosche tinte reazionarie, che fu lo snodo teorico utile all’avvento del nazismo in Germania e più in generale all’affermazione di quei fascismi che ballarono sulle teste di molti europei e per molti anni a venire.