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di Andrea Manganaro

L’undici marzo scorso è morto nella “prigione europea” di Scheveningen Slobodan Milosevic, in circostanze che non potevano non essere quanto meno misteriose. Ex Presidente della Repubblica di Serbia nella federazione jugoslava del dopo-Tito, a partire dall’87, ed ex capo di governo della residua “mini Jugoslavia” costituita da Serbia e Montenegro, il “macellaio dei Balcani”, come è stato soprannominato dai media internazionali, è stato presentato come un feroce dittatore e un sanguinario tiranno, senza considerare, però, il vasto consenso di cui godeva in patria, anche dopo la sua detronizzazione a seguito della prima “guerra umanitaria” della NATO. La sua ascesa politica è stata caratterizzata, nell’agonizzante Jugoslavia degli anni ’80, dal voler difendere a tutti i costi la vecchia nomenklatura comunista di fronte allo sgretolamento del collante ideologico comunista, che ha costituito le fondamenta della Jugoslavia titina. Il paradosso è stato che, per rimediare a questo sgretolamento, Milosevic ha fatto leva sull’atavico nazionalismo serbo, rispolverando gli antichi miti coltivati da scrittori e poeti anticomunisti, così come ha ricordato recentemente lo scrittore sloveno Slavoj Zizek. Ed il rispolvero dei vecchi nazionalismi in un Paese lacerato da un passato di massacri etnici è stato un contributo decisivo all’esplosione della polveriera balcanica. La frammentazione delle identità nazionali su questo territorio, come noto, è dovuta alla loro travagliata storia. Per quasi quattro secoli, dalla metà circa del XV secolo al Congresso di Berlino del 1878, il confine militare tra l’Impero Austro-Ungarico e l’Impero Ottomano ha coinciso con l’attuale confine settentrionale della Bosnia con la Croazia.

Lungo questo confine, su entrambi i versanti, i contadini-soldati sono immigrati in massa nei secoli, a causa dei privilegi che venivano loro concessi in cambio della difesa militare permanente del confine. Ma i massacri più feroci sono avvenuti nel corso della seconda guerra mondiale, quando la Croazia ustascia, Stato fantoccio dei nazisti, adottò la “soluzione finale” nei confronti dei Serbi, che consisteva nello sterminio di un terzo di loro, nell’espulsione di un altro terzo, e nella conversione cattolica del restante terzo. Soltanto nei primi otto mesi di occupazione nazista, dall’aprile al dicembre 1941, si stimano all’incirca tra le 200 e le 300 mila vitt ime serbe, tra campi di concentramento (soprattutto quelli di Jasenovac, Stara Gradiska, e Jadovno, dove si stima che nel corso della guerra vi siano state più vittime di quante ne abbia fatte l’Impero Ottomano in cinque secoli di dominazione) ed esecuzioni sommarie ad opera non solo delle autorità ustascia, ma soprattutto della popolazione civile.

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“Noi che siamo posti alla fine dei tempi”, predicava di sé e dei suoi contemporanei Ottone di Frisinga. Perché in ogni epoca almeno un profeta ha avvertito il trapassare dei significati e lo ha proclamato al mondo. E se anch’io qui, più modestamente, affermassi che un ciclo storico è finito, essendo venuti meno gli antichi valori europei della religione, della filosofia, della morale, troverei forse il consenso di coloro che mi leggono.

E continuerei ad averlo se aggiungessi che la mancanza di scopi e di valori ultimi caratterizza questo nostro tempo disincantato. La scienza, che ha secolarizzato la vecchia immagine del mondo, spogliandola dell’originario velo mitologico-religioso e riducendola a nuda oggettività, ha prodotto l’inarrestabile disincanto. Risultato sconvolgente di tale razionalizzazione il politeismo e, conseguentemente, l’equipollenza dei valori che hanno portato alla svalutazione di tutti i credo e di tutte le norme, fino a rendere inutili e addirittura stupide prescrizioni e proibizioni. L’uomo di oggi si caratterizza per la perdita del centro, in quanto non s’inchina a nessuna autorità e non presta fede a nessun principio. Non ha un punto archimedico che gli consenta di sollevarsi dalla vanità del tutto. Ne derivano processi di consunzione e svanimento che attaccano ogni risorsa economica, psichica, estetica, religiosa: ateismo, fatalismo, pessimismo, egoismo, indifferenza le nuove tavole della legge che ci consegnano inermi alla drammatica finitudine di un’esistenza priva di trascendenze che le diano un senso. Se i miei lettori sono ancora d’accordo sappiano - ma mi avranno preceduto nella formulazione - che questo è nichilismo. A parte Ottone di Frisinga, infatti, le precedenti affermazioni sono un sintetico e approssimativo collage di riflessioni di alcuni filosofi che si sono confrontati col nichilismo. Nel proporle ho seguito il saggio di Franco Volpi Nichilismo, Laterza 1996. Nichilismo, dal latino nihil, niente, nulla: una filosofia che vede in Nietzsche il suo rivelatore e il suo maieuta, colui che ha fatto prendere coscienza al mondo dell’evento blasfemo: Dio è morto. Frase che scandalosamente riassume quanto detto finora. I nichilisti sono stati presentati al grande pubblico in film, il più delle volte comici, come dinamitardi barbuti, ingenui e insieme irresponsabili - gli anarchici panslavi di Bakunin - i quali parevano non saper bene che fare oltre il tirar bombe contro le carrozze dei sovrani della belle époque. I cultori della letteratura russa conoscono invece gli eroi nichilisti di Turgenev e Dostoevskij, mentre i liceali per i quali lo studio della filosofia è piuttosto un’imposizione che un’esigenza associano forse Nietzsche e nichilismo. Non riflette il grande pubblico che il nostro tempo è nichilista in toto, pur senza aver letto Nietzsche, il quale comunque non era un demonio né un pazzo, anche se pazzo morì. Infatti “chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subito la tentazione conosce ben poco della nostra epoca” (Jünger-Heidegger, Oltre la linea, Adelphi 1989). Nietzsche, è vero, ha avuto l’improntitudine di affermare che l’inizio del processo storico che ha portato al venir meno dei valori tradizionali - Dio, la verità, il bene - è in Platone, quando pose la dicotomia tra mondo sensibile e mondo ideale, conciliabile solo nella mente del sapiente, aprendo così il varco alla negazione dei valori. Su questa via perseverò il cristianesimo, che indicò il mondo vero nell’aldilà, e nella penitenza e negazione di questo il modo per raggiungerlo. Kant scrisse poi il terzo capitolo del platonismo-nichilismo argomentando: il mondo soprasensibile è irraggiungibile e indimostrabile, è un imperativo morale. Crolla ogni certezza: solo la ragione pratica postula un Dio. La frana metafisica è iniziata e il positivismo vi s’inoltra: se il mondo vero è irraggiungibile e inconoscibile, cosa ci può vincolare a esso? Ignoriamolo e disinteressiamocene. Lo scetticismo e l’incredulità hanno vinto. E’ il momento di Nietzsche, che trae le inevitabili conclusioni del processo millenario. Constata che il mondo ideale è divenuto inutile e ne prende atto: va abolito, cancellato. Le conseguenze sono devastanti sul piano conoscitivo e pratico: il divenire dell’essere - che è poi il nostro esistere - non ha più un fine, non mira a nulla, non raggiunge nulla; non v’è un principio unificatore che gerarchizzi e organizzi il reale, non esiste la verità. Nietzsche, per aforismi e frammenti, tenta di sfuggire al demone che ha suscitato e delinea la sua via d’uscita dal nichilismo: la volontà di potenza, il superuomo, l’eterno ritorno ne sono le espressioni a volte esoteriche. Ma il problema - lo vive il nostro tempo - è tuttora aperto e il pensiero si macera per intravederne la soluzione. La quale non è soltanto gratuitamente teoretica (ero stato tentato di scrivere accademica, come spesso accade di dispute filosofiche), ma drammaticamente esistenziale. Proporrò soltanto, a conclusione, le sconsolate e terribili riflessioni di Jünger: nel deserto che cresce occorre erigere un baluardo interiore che preservi alcune oasi di libertà - la morte, l’eros, l’amicizia, l’arte: consentiranno all’individuo di resistere all’imperversare del nichilismo. E di Heidegger: occorre sperimentare fino in fondo la potenza del nulla perché giunga ad esaurimento e lo si possa superare. Nell’attesa dell’ “altro inizio” - “ormai soltanto un dio ci può salvare” - il solo punto d’appoggio nel vortice del nichilismo è per il pensiero la capacità di pazientare, l’ “abbandono”. Su questa sorprendente conclusione dell’ultimo Heidegger - paradossale in quanto accanto al nichilismo radicale convive un’incompatibile incrinatura mistica - s’affatica il dibattito contemporaneo, riproponendosi l’insoluta interrogazione gnostica: chi siamo? donde veniamo? dove andiamo?

Adriano Simoncini

In “Città Panico”, edito in Italia da Raffaello Cortina nel 2004, Paul Virilio, traccia una sorta di reportage della catastrofe: dalla distruzione delle Torri gemelle ai bombardamenti iracheni, dai black out nelle metropoli occidentali alle devastazioni portate dagli uragani. In realtà, dal flusso potente della sua scrittura, analitica e immaginifica al tempo stesso, affiorano i presagi di uno stato di allerta permanente oggi generalizzato a tutto il pianeta.

Il ragionamento di Virilio è facile da riassumere: nell’epoca in cui la velocità del progresso tecnologico e scientifico è sfuggita inesorabilmente a qualsiasi controllo politico, ecco che allora l’incidente, anzi la catastrofe, è diventata inevitabile. E a questo paradigma non sfugge certamente la città contemporanea, che Virilio definisce “la più grande catastrofe del ventesimo secolo”.

“All’iperconcentrazione delle megalopoli si aggiunge non solo l’iperterrorismo di massa, ma anche una delinquenza panica che riconduce la specie umana alla danza di morte delle origini e la città torna a essere una cittadella – in altre parole – un bersaglio per tutti i terrori, domestici o strategici”. Ed è proprio in queste “città atrofizzate che si credono il centro del mondo” che Virilio individua lo “spazio critico” della cosiddetta mondializzazione economica, dove la crescente velocità dei mezzi di comunicazione ha vanificato la vecchia idea della sovranità territoriale come fondamento dello stato di diritto: “il mondo degli affari, come quello della guerra, si ritrova allora in condizioni di assenza di gravità, nell’attesa angosciante del grande incidente, di questo crac globale che non mancherà di prodursi un giorno o l’altro”. Nell’osservare la continua accelerazione delle reti e dei mezzi di comunicazione, Virilio arriva così a parlare esplicitamente di un “crepuscolo dei luoghi”, perché è soprattutto la crescente velocità degli spostamenti che ha divorato i luoghi, le coordinate territoriali e ogni altro riferimento di posizione: “le distanze si sono annullate e gli intervalli di spazio e tempo sono scomparsi nella progressiva desertificazione e miniaturizzazione del mondo”. Virilio spinge questa suggestione quasi sino al paradosso: “Dopo essere riuscita a miniaturizzare gli oggetti, le macchine, i motori, la tecnica ha infine raggiunto i propri scopi miniaturizzando i tragitti, i confini del mondo”.

Ecco allora il problema, il punto di crisi dell’epoca globalizzata in cui viviamo: se ai tempi di Cesare, “la più grande gloria dell’Impero era di fare delle proprie frontiere un vasto deserto” oggi, invece, “il deserto in questione non si situa più in periferia – lungo il limes - ma intra muros, ovvero nel centro delle metropoli”. Le bombe dei kamikaze, allora, non uccidono più soltanto alla periferia dell’impero, in Iraq, Israele, Afghanistan, ma colpiscono anche nel centro delle città occidentali, tra i grattacieli, nelle stazioni della metropolitana e alle fermate degli autobus. Il confine globale che segna la frattura tra i popoli del mondo, che divide il pianeta tra nord e sud, attraversa adesso il cuore delle città.

Virilio osserva infatti che ormai “le frontiere dello Stato americano passano proprio all’interno delle metropoli del ventunesimo secolo, con le loro gangs, le loro milizie, i loro terroristi di cui nessuna guerra classica potrà liberarci”. Virilio porta ad esempio l’impiego che gli Stati Uniti fanno della loro guardia nazionale: “specializzata nella lotta contro le conseguenze delle catastrofi naturali, l’unità sembra a proprio agio nella periferia della capitale irachena, esattamente come negli slums americani, in mezzo a civili abbandonati al saccheggio e a violenze di tutti i generi”. Aggiungiamo allora che, proprio in questi mesi, la guardia nazionale si trova a proprio agio nella periferia di New Orleans come nei villaggi iracheni controllati da Al Zarkawi rivelando come, nell’immediatezza di un mondo senza più distanze, lo stato di emergenza si è ormai generalizzato. In realtà, l’iperterrorismo di cui parla Virilio è tale perché completamente deterritorializzato: per distruggere non ha nemmeno bisogno della massa d’urto di un esercito di divisioni blindate e il suo sistema di armi, del resto, consiste nell’insieme dei mezzi di comunicazione di massa rivolti contro l’avversario.

L’INFOWAR descritta in “Città panico” è una vera e propria guerra al reale, in cui l’arma di comunicazione di massa è strategicamente superiore all’arma di distruzione di massa. Di colpo a prevalere è l’informazione e la sua velocità di comunicazione istantanea da cui nasce il movimento panico che sconvolge il nostro senso dell’orientamento e, in altre parole, la nostra stessa percezione del mondo. Paul Virilio scrive in proposito: “Ormai, con la rivoluzione della comunicazione audiovisiva, assistiamo (in diretta) ai disturbi della percezione stroboscopia dell’informazione; di qui la confusione non solo delle nostre immagini oculari, ma soprattutto delle nostre immagini mentali”. In proposito, Virilio cita le parole di George Bush nell’aprile del 2003: “Per una combinazione di strategie immaginative e di tecnologie avanzate ridefiniamo la guerra sulle nostre basi”. Ma se la definitiva disgregazione dei grandi blocchi geopolitici ha comportato nei fatti la crisi dello Stato-nazione, il ripiegamento tattico sulle metropoli è stato altrettanto illusorio, confermato dalla riapparizione delle città-stato cintate e militarizzate come fortezze. Ne sono un esempio gli Stati Uniti che, con il pretesto della paura e dell’insicurezza sociale, vedono oggi decine di milioni di cittadini reclusi nelle cosiddette gated comunities, sobborghi residenziali blindati, protetti da cinte di telecamere e guardiani armati. E sempre Virilio osserva come ciò valga ugualmente anche per il continente latinoamericano, dove le gang devastano la città a San Paolo come a Bogotà o Rio de Janiero, quando non lo fanno altrimenti gli squadroni della morte, i gruppi paramilitari o di “forze armate”, svelando il “totale caos del vecchio diritto di cittadinanza” e confermando “l’emergere di una cinta, di un campo trincerato, di uno stato poliziesco dove le forze dell’ordine sono privatizzate come lo sono state, una dopo l’altra, le imprese pubbliche”. Sintomi questi della regressione patologica della città, dove la cosmopolis, la città aperta di ieri, ha ceduto il passo alla claustropolis caratterizzata dai tratti della chiusura e dell’esclusione. Il libro, già dopo gli attentati di Londra della scorsa estate e della catastrofe di New Orleans, appariva di notevole ed evidente interesse. In realtà, il testo propone ed approfondisce anche ulteriori aspetti che ritornano di immediata attualità: soprattutto riguardanti certe strategie comunicative ed emozionali dell’attuale politica spettacolo (anzi dello “spettacolo della politica”).

Non a caso, Virilio parla e definisce l’idea di una nuova democrazia dell’emozione: “dopo i danni della democrazia d’opinione – che sostituirebbe la democrazia rappresentativa dei partiti politici – e i deliri della politica spettacolo, si immaginano facilmente quelli procurati da questa democrazia di emozione pubblica che rischia di dissolvere come l’acido, l’opinione pubblica, a beneficio di un’emozione collettivistica istantanea di cui abusano tanto i predicatori populisti, quanto i commentatori sportivi o gli animatori di rave party”. Come non pensare allora agli scenari di “miseria, terrore e morte” evocati da Berlusconi e dai suoi Berluscones dell’ultima campagna elettorale. Una campagna giocata in gran parte per suscitare paura e ansia. Perchè sempre secondo il filosofo francese, dopo la standardizzazione dell’opinione pubblica, l’omologazione dei consumi e più in generale della cultura, entriamo nell’era della “sincronizzazione dell’emozione collettiva”, in cui “il movimento panico diventa l’accelerazione della realtà che distrugge il nostro senso dell’orientamento – in altre parole la nostra visione del mondo”.

Francesco Scalone