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Sono ormai passati 20 anni dal debutto dell'Unione Monetaria Europea e ne sono passati ormai 10 dalla "Grande Depressione" innescata dalla crisi dei mutui sub-prime negli USA. In questo periodo, l'Italia ha perso circa 6 punti percentuali di PIL in termini reali, e in termini pro-capite siamo allo stesso livello del 1999. Poco meglio è andata agli altri Paesi dell'Europa meridionale. Le divergenze macroeconomiche all'interno dei Paesi europei sono aumentate, così come sono cresciute le disuguaglianze sociali all'interno degli stessi Paesi. Il fallimento dell'austerità e dell'impostazione ordo-liberista è ormai sotto gli occhi di tutti, persino per ammissione stessa dei leader delle istituzioni europee.

Tutto questo ha portato ad una profonda trasformazione degli scenari politici nazionali. Le tradizionali forze del campo socialista e socialdemocratico hanno subito ovunque un forte ridimensionamento e in alcuni casi veri e propri tracolli; per contro, sono sorte un po' ovunque forze anti-sistemiche e populiste che in alcuni casi hanno le caratteristiche dell'estrema destra xenofoba e nazionalista, ed in altri hanno invece assunto richiami più movimentisti, ambientalisti e aspirazioni alla democrazia diretta.

Come è possibile risollevare le sorti del continente europeo? L'Unione (Monetaria) Europea si può cambiare o si deve abbattere? Sarà questo il tema che affronteremo in un incontro pubblico con Domenico Moro, sociologo e ricercatore Istat, autore del volume "La gabbia dell'euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra"; e con Toni Iero, economista e responsabile dell'Ufficio Studi di un noto gruppo bancario-assicurativo. L'incontro di terrà SABATO 26 GENNAIO alle ore 17,00 presso la Casa per la Pace "La Filanda" di Casalecchio di Reno, in via Canonici Renani, 8.

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Un'analisi del voto in prospettiva storica

di Andrea Manganaro

Non c'è dubbio: l'esito di queste ultime elezioni politiche costituisce un terremoto di proporzioni imprevedibili alla vigilia, le cui conseguenze politiche saranno probabilmente sistemiche. Molto più di quelle del 1992, considerate in qualche modo le ultime della cosiddetta “prima Repubblica”, forse di più anche rispetto a quelle del 1994 che sancirono – almeno nella prassi – l'avvio della cosiddetta “seconda Repubblica”.

Tre sono gli elementi caratterizzanti di questo sconvolgimento: 1) il minimo storico raggiunto dalle forze della “sinistra” genericamente intese; 2) il sorpasso, nel campo del centrodestra, della “nuova” Lega di stampo nazionalista (se non proprio fascista) nei confronti di Forza Italia; 3) il boom del Movimento 5 Stelle nelle regioni del Sud con percentuali pressoché inedite. Vediamo nel dettaglio questi tre punti.

Il PD ha preso alla Camera il 18,7%. Una percentuale così bassa in una elezione politica il PCI non l'ha mai presa nel dopoguerra, nemmeno in occasione dell'elezione dell'Assemblea Costituente nel 1946, quando ottenne il 18,9%. Vero è che i partiti eredi del PCI sono riusciti a scendere sotto questa percentuale, ma soltanto in due peculiari occasioni: a) nel 1992, al suo debutto, il PDS ottenne il 16,1%, ma scontava la scissione dal PCI della componente di Rifondazione Comunista (che ottenne il 5,1%); b) nel 2001, i DS (anche in questo caso si trattava del debutto) ottennero il 16,6% (sempre con Rifondazione attorno al 5%).

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E' passato un anno dal grande successo del NO al referendum costituzionale sulla riforma voluta da Renzi ed il suo governo. E' giunto il tempo di fare un bilancio: com'è la situazione oggi? Sul far dell'estate, lo scenario politico italiano sembrava ancora ibernato, come se quell'esito avesse costituito una sorta di azzeramento degli sviluppi futuribili. Eppure quel voto, che ha fatto registrare la più alta affluenza alle urne per un referendum dal 1993 in poi, ha segnato un tornante decisivo nella storia repubblicana. In quel 1993 di referendum se ne svolsero ben 8 (di tipo abrogativo e non confermativo di una riforma costituzionale come in questo caso) tra cui, come noto, quello che diede il via all'introduzione del sistema elettorale maggioritario. Da allora, si sono susseguiti i tentativi di adottare sistemi ancor più maggioritari, sia cercando di abolire la residua quota proporzionale del cosiddetto “mattarellum”, sia con il cosiddetto “porcellum”, introdotto dal governo Berlusconi nel 2006, con cui veniva attribuito il 54% dei seggi alla coalizione che prendeva più voti, a prescindere da quanti suffragi abbia effettivamente ottenuto. Si è trattato di una mostruosità giuridica che solo recentemente la Corte Costituzionale ha (in parte) sanato, e con la quale sono stati eletti gli ultimi tre Parlamenti.

In quello stesso 2006 il governo Berlusconi adottò, con una maggioranza che non andava al di là della sua stessa coalizione, una riforma che cambiava più di 50 articoli del testo costituzionale, introducendo una sorta di premierato forte in cui il capo di governo avrebbe avuto addirittura il potere di imporre lo scioglimento delle camere al presidente della Repubblica. Allora, come noto, il centrosinistra all'opposizione chiese il referendum confermativo con cui fu respinta la riforma. Andò a votare poco più del 50% degli elettori ed i NO superarono il 61%. La Costituzione dimostrò già allora di essere “sana e robusta”, ed il dispositivo previsto all'art.138 si rivelò un forte anticorpo nei confronti dei tentativi di manomissione in senso autoritario.

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