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L’infanzia, l’adozione, la malavita napoletana raccontate nell’ultimo film di Antonio Capuano.
Regia: Antonio Capuano
Soggetto e sceneggiatura: Antonio Capuano
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Giorgio Franchini
Produzione: Indigo, Medusa, Domenico Procacci
Durata: 100’

Un bambino che disegna su una parete qualunque, su quaderni e muri di scuola, ovunque, che aspetta col verde e attraversa col rosso, che preferisce confessarsi a Mimmo, il suo cane trovatello e non alla madre, un bambino che a volte fa pensieri di morte, di guerra, di armi, mutilazioni e altre crudeltà. Si chiama Mario, ha nove anni ed è il protagonista de La guerra di Mario, l’ultimo film di Antonio Capuano.

La storia di Mario Ciotola (Marco Grieco) si consuma a Napoli, divisa tra due mondi cittadini lontani l’un l’altro, quello borghese dei quartieri signorili e quello degradato e banditesco di Ponticelli. Al primo appartiene Giulia (Valeria Golino), la madre adottiva, al secondo Mario e i suoi veri genitori: un contrabbandiere semisconosciuto e Nunzia (Rosaria De Cicco), donna di strada piena di guai. Capuano ci tratteggia una personalità fantastica, quella di un bambino scampato al reclutamento minorile della camorra grazie all’affidamento e che adesso non trova un proprio posto nel mondo; la dimensione poetica e struggente di un’infanzia “diversa”, dall’ascendente potentissimo, capace di cambiare le sorti di chiunque le offre amore e comprensione. Giulia più di chiunque altro, l’unico essere umano capace di avvicinarsi ai pensieri del bambino, o meglio, soltanto a quella parte di essi che raggiunge la superficie; Giulia, professoressa d’arte contemporanea, espressione di una nuova napoletanità che cerca di emanciparsi dalle brutture morali della sua città, è un fragile anello di congiunzione tra il mondo di Mario, dove le scelte si fanno fuori degli schemi sociali, dov’è l’indipendenza dello spirito e lo stupore per le cose semplici e autentiche, e quello di tutti noi, delle tutrici, degli psicologi, dei giudici affidatari. Sandro (Andrea Renzi) è il compagno di Giulia, un uomo di sani principi, forse anche troppo perfetto, che tenta con ogni sforzo di accogliere Mario, ma la personalità del bambino gli sconvolge l’esistenza, lo respinge, tronca sul nascere ogni suo tentativo di comunicazione fino a costringerlo a gettare la spugna e allontanarsi per qualche tempo. La sua guerra Mario la combatte su più fronti, non solo contro le benevolenze troppo facili di chi in fondo vuole decidere per lui, ma anche contro la consuetudine, le regole sulle quali gli adulti appiattiscono le loro vite. Giulia gli compra un vero pianoforte e dice che se gli piace potrà studiare musica per suonarlo, ma per Mario, certo bambino per cui la scuola è un grande tavolo da disegno, il codice stradale un gioco di colori e incomprensibili figure, un appuntamento è un incontro senza orario e senza giorno, per Mario le cose non stanno come dice Giulia. E così ammiccando al pianoforte le ribatte con rabbia: «Si deve studiare pure questo? Non c’è niente che non si deve studiare a casa tua?».

Vivendo questa esperienza Giulia scava anche dentro se stessa, libera tutto il suo bisogno di essere madre e accende un amore via via sempre più intenso verso il bambino. Di tanto in tanto lo accompagna nel quartiere dove è nato, affinché il passaggio alla sua nuova vita possa avvenire in modo graduale. Lì Mario rivede Luciano, il suo compagno di banco che ha abbandonato la scuola per imboccare il tunnel della malavita. Luciano è con gli amici di strada, è sicuro di sé, sembra un adulto e quando Mario gli domanda se torna a scuola qualcuno dal branco gli risponde: «la scuola è un brutto carcere, il carcere è una bella scuola». Mostrando l’ambiente nativo di Mario, i linguaggi e le vite che lo animano, Capuano ci narra pezzi della propria autobiografia. La città di Napoli e la napoletanità sono per il regista partenopeo un bisogno di stare nel suo mondo, per raccontare al meglio storie di quella città irripetibile, che sono poi anche le sue storie (probabilmente Capuano non saprebbe fare così bene se non girasse a Napoli). La guerra di Mario è certamente un film testimonianza, che offre lo spaccato di un’attualità drammatica e spesso ignorata, lasciata “correre” perché ritenuta un male incurabile; è l’etica della malavita, che ha strada facile nelle personalità plasmabili dei più giovani, quelli che non vanno a scuola, che le scuole le distruggono senza un motivo apparente. Un film raccontato con estremo realismo, con strumenti essenziali ma efficaci, una fotografia dai colori intensi, che si spengono lentamente quando Mario sprofonda nei suoi pensieri spaventosi, ma che in altri attimi, per la loro vitalità, fanno pensare alle pennellate degli impressionisti. La pellicola precedente, Luna rossa (2001), entrò nella selezione ufficiale per la 58a Mostra del cinema di Venezia, La guerra di Mario fa un sorpasso nei meriti: è candidato al Festival del cinema di Locarno e Valeria Golino vince il David di Donatello 2006 come migliore attrice protagonista.

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Dato l'interesse di alcuni e lo sconcerto di altri, nel gruppo “La Fornace”, voglio, brevemente, commentare l'articolo "Verso un'epistemologia triadica" di Ettore Perrella. (Leggi sul sito dell'autore)

Trattasi di un articolo, per me, di difficile lettura, non perché sia incomprensibile o poco comprensibile, è di fatto comprensibilissimo, ma arcaico nella sua impostazione, cosa forse non sgradita all'autore, dato che enuncia un programma arcaicizzante ;-).

Già in passato ho manifestato la riluttanza ad interloquire con chi parla di metafisica prescindendo da Carnap; ebbene una variante della stessa sensazione posso esprimerla così: "Come si fa a parlare di epistemologia prescindendo da Kuhn?". Significa buttare tutto il XX secolo!

Il disagio sorge anche dal dover ripercorrere i ragionamenti lontani, quando studente liceale di storia della filosofia affrontai questioni similari a quelle prospettate da Perrella, per dedicarmi, in seguito, all'approccio analitico, ma faccio comunque lo sforzo non potendo escludere a priori che qualche progresso sia possibile. A prima lettura non mi sembra che ci siano stati approfondimenti particolari, anche se trattasi di una buona esposizione di posizioni tradizionali. Naturalmente potrebbe essermi sfuggita qualche sottigliezza, per cui sono aperto al confronto.

Dirò subito che io salvo una parte dell'articolo, quella sulla consequentia mirabilis (comma 😉 4). Intanto l'autore la enuncia correttamente: “se, dalla negazione della proposizione A, si deduce A, allora A è vera” [io però la scriverei in stile più moderno: ( ~A -> A ) -> A ], il che è più di quanto fanno molti, poi la spiega in modo corretto e comprensibile. Di grande interesse sarebbe per me discutere de "La contraddizion che nol consente" dello "Ex falso quodlibet" o del sillogismo in Barbara che ho citato persino in un lavoretto teatrale (noto come 'il dialogo dei transfiniti' o 'l'acrobata') e delle fallacie che impestano il discorso contemporaneo, in particolare quello politico. Qualcuno ricorderà persino la CdCS (Campagna di Chiarificazione Semantica) da me lanciata a livello di massa 😉 nel tardo XX secolo e, per questi fini, una presa di coscienza dei risultati della scolastica è già un passo avanti.

In sintesi, a me l'articolo, pur adatto ad approfondire il pensiero di Palamas, sembra poco utile per un arricchimento sull'epistemologia contemporanea. Darò appena qualche puntatore schematico del perché

1) La scienza di Galileo, dice varie volte l'autore, forse inconsapevole del fatto che la scienza di Galileo è la scienza di Archimede. Ebbene tra le cose che fanno grande Archimede (di cui spero di parlare più diffusamente nell'articolo "Il floppy di Archimede") è una chiara comprensione del metodo assiomatico, cioè della modellistica, ovvero, per umanisteggiare un po', del fatto che la mappa non è il territorio. Affermazioni sulla duplice natura, corpuscolare ed ondulatoria, della luce attestano la sorprendente realtà del fatto che l'epistemologia (nella fisica) del primo XXI secolo non ha ancora raggiunto quella di Archimede. Perrella liquida il metodo assiomatico quale residuo aristotelico, ma sa di cosa si tratta? Dal fatto che dice: "La sola differenza fra ciò che comunemente viene chiamato scienza e ciò che comunemente viene chiamato filosofia sta nel fatto che solo la prima può consentirsi di ricorrere a dei principi assiomatici senza che da questo derivi nessuna falsificazione dei suoi contenuti e dei suoi risultati (se non sul piano etico), mentre la seconda non può fare ricorso a questo metodo senza falsificare totalmente se stessa", sembrerebbe di no. FIII! Fallo di Realismo. Ma in fondo è un platonico, consequitur. Qualcuno dovrebbe dirgli, però, che "Falsificazione" , dopo Popper, ha un significato tecnico ben preciso in epistemologia. Ma forse lo sa e finge di non saperlo, in fondo dice "Tutto ciò ha qualcosa a che vedere con una possibile epistemologia? Naturalmente no, se si pensa che la scienza debba solo considerare le cose del mondo a partire da fondamenti assiomatici indimostrabili, nessuno dei quali è di natura etica."

Ebbene: "La scienza si fonda su principi assiomatici indimostrabili, nessuno dei quali è di natura etica". JC dixit

2) Che mi dice Perrella sulla "Ethica more geometrico demonstrata"? Nulla! Si vede che gli sta antipatica e del resto il programma di rendere scientifica l'etica è speculare al suo e, a mio giudizio, più utile. Del resto uno dei miei "lavoretti" giovanili (17 anni) è stata la giustificazione pragmatica dell'etica che affrontai come esercizio preparatorio alla giustificazione pragmatica dell'induzione. Rimando ad altro momento lo sviluppo del mio "neo-utilitarismo pesato" dove il vero lavoro sta nella matrice di calcolo dei pesi e non in discorsi fumosi, per esigenza di tempo

3) sul non-essere ho già detto

4) Esplicazione o lettura di Palamas? Mi dichiaro non competente

5) Ma gli Enti sono quelli che han smarrito le Entesse? Ma no dai, lui intende Entia! Allora "Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem". E poi si dice Categorie, oggi. Quando mia figlia aveva un anno e mezzo mi lessi il carteggio tra Kuhn e Feyerabend per prepararmi adeguatamente alla sua costruzione di categorie. Si, sono orgoglioso di essere aristotelico, sull'argomento. Dopotutto siamo animali evoluti nella savana, allorché razionali.

6) "Chiamiamo metafisica la scienza dei fondamenti del sapere" Ah Perrè, e se la botte si chiamasse vino ed il vino acqua...

E con l'ultima battuta mi è venuta sete e fame, per cui vos salutem dico,

Jiulius Caesar


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A proposito dell'intervento di Fabrizio e della replica di Giorgio.

Chiedo scusa per occupare altro spazio nel merito di una questione che ha già spazientito a sufficienza. Sarà una brevissima aggiunta. Giorgio si chiedeva giustamente che diavolo intende Perrella con etica? Non mi permetto di
rispondere solo perchè non sono sicuro che lo farei in modo del tutto appropriato. Rimando per chi fosse interessato a due luoghi appassionanti di agomentazione dove è possibile avvicinarsi ad una possibile risposta: il seminario sull'etica di Lacan e il bellissimo libro "Il tempo etico" di Perrella. Si tratta di due luoghi psicanalitici. Non
credo sia facile accedere al senso dell'etica che intende Perrella a priscindere dalla sua esperienza psicoanalitica. Quindi un campo di esperienza individuale e molto pratico. Ho sempre pensato che gli psicoanalisti dovrebbero dedicare un pò di tempo a spiegare il concetto di etica psicoanalitica, perchè dare per scontato che chi ascolta
capisca con il solo supporto del termine è del tutto irrealistico. E' vero che chi vuole può capire ma non si può pretendere che tutti vadano a leggersi i testi più adatti. Inoltre mi sembra del tutto evidente che questo termine è pensato in tuttaltro modo sia nella filosofia che nel senso comune. Aggiungo che l'etica non è la morale, non ha molto a che vedere per esempio con il codice deontologico e l'etica professionale. Queste sono piuttosto il sintomo di una mancanza di etica. Un pò come Paolo di Tarso trattava la Legge: una stampella a sostegno dell'incapacità di amare e di essere giusti come Cristo. Ma non può essere la Legge a fare la giustizia perchè questa dipende solo dall'atto "giusto". Si può essere iniqui nel rispetto della legge (vedi Previti e Berlusconi) e si può essere giusti nel non rispetto della legge (vedi Antigone). Ma finchè non si riesce ad essere giusti è meglio rispettare la legge perchè questa nasce comunque con l'intento di aiutare ad esserlo. Scusate se torno ad un livello molto più basso ma prima di tutto l'etica ha a che fare con l'atto che ogni uomo compie ogni volta che sceglie, anche quando non nè è consapevole.

La morale, la teoria, la conoscenza, il transfer verso il soggetto supposto sapere, ecc... sono tutte stampelle che utilizziamo per risparmiarci ogni volta di compiere un atto nel senso pieno. Nel discorso sul metodo Cartesio ha effettuato questa operazione di incontrare al di là di tutte le sovrastrutture simboliche il reale della propria soggettività fondante il mondo. Ogni volta il mondo è quello che abbiamo più o meno "scelto" che sia. Non nel senso di una produzione delirante o di idealismo assoluto, ma nel senso che il mondo in sè non esiste ed esiste solo un mondo relazionato a noi e alla nostra possibilità di accoglierlo.

Per gli antichi ad esempio era piatto, fermo, ecc... Quello che è il mondo in sè non ci è ne mai ci sarà accessibile. La scienza e la filosofia sono tentate dall'idea di non aver bisogno di rifondarsi etica mente ogni volta convinti che ci si possa accontentare della fondazione che Cartesio ha fatto una volta per tutte e per tutti. Questo atteggiamento contribuisce molto alla produzione di questa enorme pigrizia
ed indifferenza che caratterizza il tempo in cui viviamo. Ma basta guardare con un pò di attenzione e ci rendiamo conto che non è così. Il fisico non è soggettivamente
escluso dall'esperimento perchè ad esempio è in base alla sua scelta che una particella si manifesta come corpo o come energia. Il principio di indeterminazione stabilisce che solo l'atto osservativo fissa la realtà della materia. Ma non voglio addentrarmi in un ambito che non è il mio e con sò maneggiare in modo appropriato. Parlare dell'atto e dell'etica come di qualcosa di generale o di fondante
l'Essere in generale significa parlare dell'atto di Dio che si dice sia inconoscibile. Il nostro atto è invece molto più tangibile e conoscibile anche se un pò più difficile da
trasmettere.
Davide di Francia